L’uguaglianza del lavoro in Italia. In Emilia-Romagna un’azienda privata ricatta i lavoratori con il trasferimento in Polonia. In Emilia-Romagna non puoi spostare un professore universitario da Bologna a Forlì o a Rimini.
In questi giorni sulla stampa si è parlato di riduzioni di personale e strutture nella pubblica amministrazione. Se ne è parlato con disillusione e scetticismo. Sul tema delle strutture è intervenuto Gavazzi sul Corriere della Sera, evidenziando come il compattamento e la riduzione delle strutture più che a un progetto avviato assomigli al supplizio di Tantalo, o a una tela di Penelope. Giavazzi ci informa che “al momento dell’approvazione della cosiddetta legge sul ‘Fare’, il Senato ha votato un ordine del giorno, firmato da tutti i gruppi della maggioranza, che impegna il governo a modificare la legge Severino entro il 12 settembre, il giorno prima che entri in vigore”. La legge Severino riguardava appunto la riduzione e l’efficientamento delle strutture della giustizia. Quindi, un impegno a “Disfare” nella legge del “Fare”. Giavazzi ci fornisce una data da appuntarci nell’agenda, per una valutazione definitiva del governo Letta.
Sul tema della riduzione del numero di dipendenti pubblici è intervenuto Francesco Grillo, sul Messaggero e qui su Linkiesta, mettendo in luce la necessità di un processo di perequazione tra impiego pubblico e privato e le difficoltà di un processo che porti anche i dipendenti pubblici a una cultura del rischio, e alla responsabilità dei propri incarichi. Grillo ha messo anche in luce la difficoltà del processo, per i legami tra amministrazione e politica e per la necessità che il processo di riduzione degli organici non si traduca in un peggioramento della qualità del servizio pubblico (che già non è brillante, se vogliamo essere teneri). Francesco Grillo non ci dà una data per l’agenda, ma un numero (duecentomila unità) su cui misurare il governo Letta.
Ma ancora prima della speranza, scarsa, di vedere “passare in giudicato” una riduzione di spesa che è sempre in fase di appello, questo agosto ci ha offerto una parabola, la migliore possibile, della sperequazione e della disuguaglianza che impera tra impiego privato e pubblico. In Emilia, dove lavoro, un’azienda ha approfittato delle ferie per trasferire il proprio capitale fisico in Polonia. Pare che in un comunicato abbia “tranquillizzato” la propria forza lavoro, il proprio capitale umano, dicendo che dopo le ferie avrebbero potuto tranquillamente tornare al lavoro…in Polonia.
E ora considerate l’Emilia Romagna del settore pubblico in cui lavoro: l’università. L’università di Bologna ha una sede centrale e quattro sedi decentrate (i Poli): Forlì, Cesena, Rimini, Ravenna. Ogni sede ha docenti propri (si chiamano “incardinati”) o per concorso, o per trasferimento da altre sedi. Il trasferimento può essere transitorio o permanente. Come riterreste di allocare le risorse tra una sede e l’altra? Probabilmente vorreste spostare quelli che sono in soprannumero in una sede verso le sedi che sono in deficit. Anche io la pensavo così, e, quando mi è stato detto di andare a Rimini da Bologna ho detto: se c’è bisogno, a disposizione. E ho accettato il trasferimento da Bologna a Rimini, anche se avevo metà didattica su una sede e metà nell’altra. Ma poi ho scoperto che ero l’unico, o uno dei pochi. Il trasferimento richiede il consenso dell’interessato (e questo l’ho imparato perché il consenso mi è stato chiesto), ma avrei ritenuto immorale, senza motivazioni, opporre un rifiuto. Sono una persona fortunata, che fa il lavoro che gli piace, perché oppormi a una richiesta? Ma si vede che sono considerazioni solo mie. Ho visto gente di Bologna rifiutare il trasferimento a Rimini, e ho pensato, su suggerimento, all’eterna divisione tra emiliani e romagnoli. Ho visto gente di Rimini, incardinata a Bologna, che ha rifiutato il trasferimento a Rimini, e ancora oggi mi chiedo perché.
L’effetto di questa necessità del consenso, anche non informato, e neppure motivato, per poter mobilitare le risorse, ha effetti ovvi sulla spesa, e conseguenze meno ovvie su chi la gestisce. L’effetto ovvio è che se ti manca una risorsa a Rimini, e nessuno da Bologna si vuole spostare, devi assumere una risorsa nuova dall’esterno. E chi non fa nulla a Bologna continuerà a non fare nulla. Quello che è meno ovvio è che: se vuoi che ti diano i fondi per una risorsa a Rimini, devi tacere sul tuo eccesso di risorse a Bologna; la rigidità del personale di Bologna induce te a essere rigido con le risorse di Rimini (e di Forlì, Cesena e Ravenna), perché se li lasci liberi ti scappano tutti a Bologna (meno i fiorentini e altre etnie che si trovano bene a Rimini).
Questa sclerosi che un embolo a Bologna trasmette a tutto il corpo dell’ateneo mi ha colto di sorpresa. Quando abbiamo ristrutturato tutto l’ateneo, come è stato richiesto a ogni ateneo, mi sarei aspettato una razionalizzazione delle risorse e una riorganizzazione globale. Questa non c’è stata, e non ci sarebbe potuta essere, perché, come mi ha detto chi ha gestito l’università (e a cui credo): se le risorse non fossero state congelate sarebbero scappate, ognuno con una loro motivazione, ognuno con un loro sponsor. E, si badi, questa mobilità (pardon, immobilità) non è solo geografica, è anche una immobilità di materia di insegnamento: rischi che chi insegna matematica scappi. E così, da tre anni sto cercando di far “evadere” (un termine che ho applicato io alla situazione) una delle migliori menti della probabilità, che è incatenata a insegnare matematica, ma non ha agganci migliori del sottoscritto per “evadere”.
In conclusione, mi associo agli interventi di Giavazzi e Grillo sulla ridondanza di strutture e numeri, e condivido il loro pessimismo. Mi accontenterei di vedere almeno una riorganizzazione della pubblica amministrazione basata sulla mobilità delle risorse, e anche su questo sono pessimista. Mi augurerei almeno che venissero richieste motivazioni valide per la resistenza alla mobilità, ma anche a questo non credo. E allora la profezia è: dovremo chiedere aiuto all’Europa, e questo è un fatto, e allora la rinuncia alla mobilità di oggi partorirà tagli lineari di personale nel futuro. E i tagli lineari di capitale umano si possono chiamare: “decimazioni”. Chiamatemi pure Cassandra, ma Cassandra alla fine ebbe ragione.
Questo il messaggio. Ai miei fan resta forse la curiosità di come è andata a finire al sottoscritto. Tutto bene, o quasi. Vivo a Firenze, dirigo un corso di laurea a Bologna, e insegno a Rimini. Vivo tra i Frecciarossa e i Frecciabianca e sono in grado di emergere dalla stazione alta velocità fino ai Frecciabianca di superficie in due minuti e cinquanta. Mi piace Rimini quanto Bologna (pardon, come fiorentino non mi dispiace Rimini più di Bologna). Mi piace correre sul lungomare di Rimini e mi piace insegnare agli studenti a Rimini, e mi piace accogliere i migliori nella squadra maggiore a Bologna. Ciò nonostante, ho chiesto, e ottenuto, che quando morirò le mie ceneri vengano portate in Toscana: temevo che il concittadino celebre tumulato nel polo di Ravenna potesse creare un precedente e un malinteso. Mi sento solo un po’ “bischero”, come si dice nella mia terra. Bischero perché ho accettato una cosa che molti altri hanno rifiutato (non saranno mica tutti bischeri loro!), e perché la riaccetterei. Bischero perché quando ho accettato mi veniva pagato viaggio e albergo, che oggi non viene pagato più, per cui spendo in media ogni anno circa settecento euro per fare il mio dovere. Insomma, bischero per bischero, bischero al quadrato. Ma bischero di successo e fortunato: molto più fortunato dei lavoratori della fabbrica “scappata” in Polonia..