Nuovo, ennesimo, rinvio nella lunga via crucis giudiziaria di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, ovvero “gli altri due italiani” detenuti in India, oltre ai fucilieri di Marina Salvatore Girone e Massimiliano La Torre al centro di un caso diplomatico internazionale. Una vicenda parallela a quella dei marò – un po’ sparita dai media nazionali, ma tuttora irrisolta – che fin dall’inizio ha mobilitato buona parte della città di Albenga, in provincia di Savona, dove la questione viene seguita con molta apprensione.
Qui, infatti, risiedono i familiari, gli amici e i conoscenti di Tomaso Bruno, per tutti “Tommy”, 29enne ingauno, da inizio 2010 rinchiuso in un carcere a Varanasi, città indiana sulla riva del Gange nello stato federato dell’Uttar Pradesh, con l’accusa di omicidio. Tomaso, prima ancora di Girone e La Torre, ha avuto la sfortuna di conoscere direttamente, sulla propria pelle, il sistema giudiziario indiano. Per le autorità locali, Bruno e l’amica e connazionale Elisabetta Boncompagni (anche lei in cella), da sempre professatisi innocenti, sarebbero i responsabili della morte di Francesco Montis, amico di entrambi, deceduto il 4 febbraio 2010 nella stanza di un albergo in circostanze ancora da chiarire.
A nulla sono serviti, ad oggi, gli sforzi compiuti fin dal primo giorno dai diretti interessati, dai legali in Italia e in India, dai familiari, dagli amici e dalle istituzioni, per dimostrare l’innocenza dei due ragazzi – sostenuta finanche dai genitori dello stesso Montis – ma anche per chiedere, con tutti i riguardi e la sensibilità del caso, lo svolgimento di un regolare e giusto processo. Lo stesso è valso per le lacune emerse nella gestione del caso e nella ricostruzione dei fatti avvenuti da parte delle autorità indiane: nonostante l’assenza di prove certe e la presenza di una controperizia che ha letteralmente smontato la tesi dell’accusa, constatando la morte del giovane per asfissia e non per strangolamento, e nonostante un processo al limite del kafkiano tra udienze rimandate più volte per le motivazioni più assurde – ferie del giudice, sciopero del pm, motivi religiosi – e contraddizioni dell’impianto accusatorio, Tomaso ed Elisabetta, da quasi 1300 giorni dietro le sbarre a quasi novemila chilometri di distanza da casa, sono stati condannati all’ergastolo. Nessun rimpatrio. Nessuna cauzione. Nemmeno la possibilità di telefonare in Italia.
Una sentenza durissima, per i due giovani connazionali. Una storia tanto triste quanto angosciante che ha messo in risalto tutti i limiti di un sistema giudiziario, che fa quasi rimpiangere quello italiano, non certo perfetto, e che, purtroppo, non smette di stupire. In negativo, naturalmente. Perché anche gli episodi più recenti, legati al ricorso in appello alla Corte Suprema indiana, non sono proprio rassicuranti: è notizia del 3 settembre, riportata dalla sezione in inglese dell’ANSA, che la corte abbia deciso per un ulteriore rinvio per i due italiani.
Non si contano, ormai, le volte in cui, nonostante la presenza di una data (apparentemente) certa e prefissata, tutto è stato rimandato a data da destinarsi. La motivazione, questa volta, è poiché “the prosecutor’s failure to show up in court”. Ovvero, per il mancato arrivo del pubblico ministero in tribunale. L’udienza prevista, e attesa da tempo da parte di amici e familiari (compresi i genitori di Tommaso ed Elisabetta, Luigi Euro Bruno e Romano Boncompagni, volati fino in India), è durata solo pochi minuti, sotto gli occhi dell’ambasciatore italiano a Nuova Dehli, Daniele Mancini, e del suo staff. Si protrae così il lungo e tortuoso percorso giudiziario affrontato dai due giovani italiani: per l’avvocato della difesa, Ranjeeta Rohatgi, la richiesta, obbligata, di fissare una nuova data, possibilmente in tempo utile.