Io sbaglio, lo so.
Il fatto è che ho da sempre una certa attitudine a essere, stupidamente, ottusamente, “contro”.
Allora, se due anni fa ho espresso non poche perplessità sul Valle occupato, e ne ho pure scritto (guadagnandomi il titolo di reazionario, o di ottuso) oggi mi sento di dire altro.
Leggo con attenzione il Corriere, il Messaggero, le acute e puntuali prese di posizione di colleghi che computano al Valle spese, sprechi, debiti, illegalità. Non sono stato alla recente conferenza stampa della nascitura Fondazione, quindi mi mancano degli elementi, ma mi chiedo perché mai quelle stesse testate nazionali non abbiano fatto i conti in tasca, o l’abbiano fatto poco, nei confronti di altri teatri, d’opera o di prosa, dove da decenni si celebrano scambi, debiti, produzioni tanto faraoniche quanto inconcludenti.
Mi chiedo perché tanta acredine nei confronti di un gruppo di disoccupati, male occupati, poco occupati dal futuro incerto che ha avuto il merito – indubbio – di scuotere le acque di uno stagno sempre più fangoso.
L’occupazione del teatro Valle è un fatto politico, simbolico, retorico e mediatico, decisamente e naturalmente irrituale, irregolare: completamente illegale, diciamolo.
Hanno dato fastidio, questi “sconosciuti”. Perché sono entrati a gamba tesa negli eterni giochi della politica e dell’apparato. Hanno mostrato l’immobilità di un mondo facendo semplicemente un gesto.
Sono corrotti anche loro? Sono compromessi? Sono furbetti? Sono paraculi? Sono fighetti? Non so, molti li conosco da anni. So quanto hanno lavorato e patito. Non credo che si siano arricchiti: magari hanno risparmiato un po’ d’affitto, ma vorrei veder voi a dormire due anni in un camerino. Si sono prestati a giochi politici? Hanno fatto errori? Certo.
Hanno esagerato spesso e malamente. Si sono sentiti depositari di un Verbo, sono stati anche aggressivi. E poi: perché loro? Chi rappresentano?
In questi due anni di occupazione hanno svelato contraddizioni, criticità, fragilità, errori. Hanno fatto un favore a Alemanno, al Teatro di Roma, al Mibac, al Comune, alla Provincia. Hanno tolto le castagne dal fuoco semplicemente stando là, facendo – illegalmente, fregandosene delle leggi – un’attività. E l’hanno fatta, addirittura, nel più bel teatro di Roma, non nel capannone di periferia.
Alemanno avrebbe dovuto, avrebbe potuto, sgombrarli il giorno dopo: non l’ha fatto. Il Comune avrebbe potuto staccare le utenze: non l’ha fatto. Il Mibac avrebbe potuto dire la sua: ha taciuto. La Siae poteva scatenare il putiferio: non è intervenuta. Cosa vuol dire? Di chi è la responsabilità?
Il fatto è, dicevo, che il Valle è diventato, ora più che mai, un simbolo. Non è un centro sociale: e questo fa sì che dia oltremodo fastidio o gratifichi chi, e sono tanti, è pronto a salire sul carro, chi è in cerca di pubblicità, chi campa di intellettualismo radical chic.
Nessuno o quasi esprime altrettanta preoccupazione o entusiasmo per il Garibaldi occupato di Palermo, per il Rossi occupato di Pisa, per il Sociale di Gualtieri o per i tanti altri teatri che in questi tempi sono stati occupati. Perché?
Certo: a fronte di un manipolo di “fanatici” che se ne frega delle leggi, c’è un mondo che fatica, tira la cinghia, fa i salti mortali per rispettarle, quelle leggi. Giovani e giovanissimi, anziani e militanti: tutti a combattere giorno dopo giorno contro le ferree leggi del Ministero. Contributi, enpals, siae, sicurezza, vigili del fuoco, e chi più ne ha più ne metta per un teatro paragonato dallo Stato a un cantiere insicuro. Va dato atto, e merito, a chi lavora, nonostante tutto, nella legalità, che è un miracolo di sana e oculata amministrazione, di buona pratica quoidiana che è l’unico modello reale di riferimento. Va dato atto a chi insomma, suda sette camicie per rientrare nel novero di “normative” fatte in base all’estro del momento, al capriccio del politico, al gusto dell’istante.
Ma non è vero che il gesto del Valle ha fatto sì che si ponesse, e con forza crescente, il problema della iniquità della norma? Ossia della iniquità del sistema stesso?
Ci preoccupiamo del Valle occupato: ma che dire di direttori artistici che “occupano” teatri stabili pubblici da venti o trenta anni? Che dire di direttori novantenni freschi di nomina?
C’è qualcuno, da qualche parte, che parla seriamente di ricambio generazionale? O di apertura produttiva?
Ormai siamo tutti abituati ad avere teatri pubblici identificati con la figura dell’artista che si autoproduce. Va bene così? Vogliamo parlarne? Se ciascuno dei 17 teatri stabili pubblici, e degli stabili pubblici di innovazione o di teatri per l’infanzia e la gioventù, producesse ogni anno 5 o 6 giovani registi, con giovani attori e giovani autori, ci sarebbe stato il Valle occupato?
Ora mi sembra facile, troppo facile, fare i conti in tasca al Valle. Quanti arretrati, quanti debiti…
Vogliamo farli al Maggio fiorentino o ai tanti teatri commissariati? Vogliamo dire quanto costano certe produzioni “da stabile” che girano solo grazie agli scambi?
Il sistema teatrale italiano, ricorda sempre un fine organizzatore, è stato creato quando i telefoni erano in bachelite nera attaccati al muro. Qualcosa, da allora, mi sembra sia cambiato, ma quel sistema è ancora in auge. Ha tanti motivi di merito (quasi come la Costituzione) e se applicato potrebbe funzionare ancora.
Ma certo il teatro è cambiato, il mondo è cambiato. E quel sistema scricchiola, necessita di una revisione. Ora, gli occupanti del Valle stanno là a dire, con la loro pelle, che se non si fa una revisione il crollo è prossimo, e travolgerà tutti. Si giocano la loro storia, il loro presente e una buona fetta di futuro, per denunciare lo stato di morte celebrale di quel piccolo mondo antico che è il teatro.
Ci pensa già abbastanza Repubblica a parlarne bene del Valle. Ma qualcosa resta da chiederci: noi, tutti noi, che facciamo? Facciamo finta di nulla? Parliamo male? Aderiamo? Dissentiamo? Aspettiamo il prossimo giro di poltrone sperando nella buona sorte? Continuiamo con l’accanimento terapeutico? O diamo finalmente sepoltura a quello che Chiaromonte chiamava il “cadavere insepolto”?
Dal Valle arriva un segnale – non l’unico, e forse nemmeno il più interessante – di una scontentezza sempre più diffusa, di un disagio sempre più ampio, di una amarezza che tocca tutti. Non vorrei vedere gli occhi di tanti – giovani attori e attrici, registi, scenografi, drammaturghi, tecnici – spegnersi nella rassegnazione, abbassarsi nella pesantezza, offuscarsi di rabbia. Preferisco vedere gli occhi folli, lucidi e belli, degli artisti, di chi prova a fare qualcosa. Occupando, gridando, lavorando gratis, facendo spettacolacci raffazzonati, sbagliando. Ma cercando, sempre e comunque, di vivere e far vivere il teatro. Però, si sa, io sbaglio.