L’Ossservatore cariocaMuore Alvaro Mutis, poeta che sapeva guardare lontano

Il poeta e romanziere Alvaro Mutis è morto ieri a Città del Messico, aveva novant'anni. Colombiano (era nato a Bogotà nel 1923), amico di Gabriel Garcia Marquez e Octavio Paz, venne conosciuto in I...

Il poeta e romanziere Alvaro Mutis è morto ieri a Città del Messico, aveva novant’anni.
Colombiano (era nato a Bogotà nel 1923), amico di Gabriel Garcia Marquez e Octavio Paz, venne conosciuto in Italia all’inizio degli anni Novanta con i tre romanzi che compongono la Trilogia di Maqroll il Gabbiere ma prima ancora con le poesie, tutti pubblicati di Einaudi.
Scrisse sempre poesia e ai romanzi arrivò già in tarda età.
Romanzi che in sostanza sono un unico racconto, una saga, quella del navigatore e avventuriero Maqroll, suddiviso per episodi che non possiedono un ordine prestabilito. Sono frammenti che si possono leggere in modo sparso e tuttavia mantengono, anche così, una loro tensione epica.

Oltre la “trilogia” composta da La neve dell’ammiraglio, Ilona arriva con la pioggia e Un bel morir, sono assolutamente da leggere Abdul Bashur sognatore di navi e L’ultimo scalo dello Tramp Steamer (questo, uscito da Adelphi), oltre alla raccolta di poesia Summa di Maqroll il Gabbiere.
Personaggio, questo, al quale Mutis ha affidato l’intera sua poetica, un mondo narrativo segnato dal rimpianto e dal senso di perdita, del tempo e della storia, incarnato nel mito del viaggio come, innanzitutto, unica chance che l’uomo ha di “incontrarsi” nell’inevitabile rischio, però, di perdersi nel frattempo.

Il viaggio di Maqroll, la patria inesistente, e dunque possibile in ogni porto, è il grande sogno e il grande desiderio, e direi anche il grande rischio che ognuno in fondo insegue. E ora che so che mai visiterò Istambul, vengo a sapere che mi aspettano nella via Shidah Kardessi, nella stanza che si trova sopra il negozio dell’oculista, dice un suo celebre verso.

Nei romanzi Mutis ha utilizzato l’espediente della doppia ricerca: di Maqroll si hanno sempre avute notizie sparse, fortuite, accidentali.
Chi le narra è lo stesso Mutis, vale a dire una “voce narrante” a cui è affidato il compito di rievocare attraverso “colpi di fortuna”, come un diario ritrovato nelle pagine di un vecchio libro presso un antiquario di Barcellona.

«Quando ormai credevo che tra le mie mani fossero passati tutti gli scritti, le lettere, i documenti, i racconti e le memorie di Maqroll il Gabbiere, e che chiunque fosse venuto a conoscenza del mio interesse per le vicende della sua vita avesse ormai completato la ricerca delle tracce scritte del suo infelice errare, il caso mi riservava ancora una assai curiosa sorpresa, proprio quando meno me l’aspettavo».
Così comincia La neve dell’Ammiraglio, che possiamo, questo sì, considerare la pietra di inizio della saga; probabilmente non lo è, ma a me piace pensare così, e consiglio a chi non l’abbia ancora letto di iniziare da qui a seguire Maqroll. Titolo che riferisce il nome di una locanda sperduta sulla cordigliera delle Ande, e già nel nome troviamo il gioco degli opposti: la “neve” e l’”ammiraglio”. Nascondiglio o ultimo porto. Vale a dire: che il destino, come afferma egli stesso nelle righe più sopra, ci riserva sempre una sorpresa.
L’”infelice errare” è inevitabile ma al suo interno esiste, dice Mutis e testimonia Maqroll, la felicità.
In questo Maqroll, eroe disperato e senza porto, è forse uno dei personaggi più carichi di afflato vitale che mi sia capitato di leggere: nella sua malinconia, che è frutto della non-appartenenza (e non c’è bisogno di essere un navigatore per sapere quali dolori essa comporti) batte il cuore di una speranza sempre viva; che può avere le sembianze dell’amore (Ilona), della realizzazione e del sogno (la miniera), dell’amicizia (Abdul Bashur).

Mutis si definiva, o forse l’abbiamo pensato noi così, il cantore di un mondo scomparso, quello di certi sodalizi, di certi codici d’onore, di certi patti che nessun mare o guerra può spezzare. Una dimensione nobile dell’uomo, che lo scrittore colombiano fece indossare al suo Gabbiere, colui che sale sull’albero maestro e avvista la terra.

Aveva ragione: abbiamo perso la capacità di guardare lontano, lo sappiamo e in ciò dimorano le nostre paure.

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