Pioveva, in Amazzonia, la mattina in cui la missionaria americana Dorothy Stang, 73 anni, fu uccisa da due sicari con sei colpi di fucile a bruciapelo. Era il 12 febbraio 2005.
Ieri sera, giovedì 19 settembre 2013, uno dei due fazendeiros accusati di essere i mandanti dell’omicidio, lo chiamano Bida, è stato condannato a 30 anni di carcere.
Lo processano da otto anni.
Due volte è stato condannato e una volta assolto. L’altro fazendeiro, lo chiamano Taradao, è stato condannato in via definitiva, ma un habeas corpus lo ha reso libero qualche mese fa.
In carcere marciscono invece i due sicari, due miserabili che hanno confessato immediatamente l’omicidio e hanno accusato i mandanti e poi, in varie fasi dei processi, si sono rimangiati le accuse per paura. Non è finita però: Bida può ancora ricorrere, gli avvocati hanno annunciato che ci stanno pensando. Sembra una barzelletta, ma è invece il meccanismo con cui funziona questa giustizia.
Può ricorrere all’infinito? Com’è che funziona sta cosa? In ogni processo, vengono portati nuovi testimoni, che ingarbugliano ogni volta di più la definizione della verità.
Mi ha colpito tornare a leggere di questo processo proprio il giorno in cui finivo Il cuore nero di Paris Trout di Pete Dexter (Einaudi), un libro per altro difficilissimo da trovare (io l’ho preso usato, sebbene sia abbastanza recente). Tra parentesi: un capolavoro, come in fondo ogni libro di Dexter. La storia che vi si racconta non è molto lontana a quella della missionaria Dorothy.
Nel romanzo, il potente di una piccola cittadina razzista del sud degli Stati Uniti uccide una ragazzina nera senza motivo, anzi, un motivo c’è: l’avidità. La ragazzina abitava a casa di una donna nera il cui figlio aveva comprato una macchina dal signor Trout e poi gliel’ha restituita perché, sotto la vernice, era tutta marcia. Trout non era d’accordo, l’auto va pagata.
Nel 2005, in una piccola città brasiliana, Anapu (700 km da Belem), la missionaria americana voleva restituire la terra rubata dai fazendeiros a una comunità di estrattori di caucciù.
Nel romanzo, quando il procuratore distrettuale interroga Paris Trout, lui è quasi stupito di essere messo sotto accusa: lui afferma di aver “regolato una questione commerciale”. Quei neri gli dovevano dei soldi, e tutto ciò che ne consegue, per lui, ha una sua logica fatale. Una sua legge.
Deve essere lo stesso meccanismo scattato nella testa dei proprietari di terra brasiliani quando hanno mandato a uccidere Dorothy: una legge personale. Lei, con le sue magliette bianche e i suoi occhiali da maestra di scuola, si metteva in mezzo alle loro “questioni commerciali”. E la giustizia, che pure maldestramente cerca e talvolta giunge a dire l’ultima parola sembra però, in fondo, costretta ad adeguarsi allo stravolgimento della realtà.
Quello di Dexter è un capolavoro in questo senso: narra come sia difficile, per la giustizia della Georgia statunitense, in un imprecisato passato, condannare Trout per il suo reato.
E infatti ci riesce male, impiegando moltissimo tempo. In quel tempo in mezzo, la giustizia muore, perché la società si annichilisce e si adegua: accetta, si conforma, si piega. La giustizia si inginocchia di fronte a chi ha un potere e la società si inginocchia con lei. Può anche arrivare una condanna, tardiva (troppo, come racconta bene Dexter, e non rivelo al lettore il finale), ma la società a quella giustizia non crederà più.
Come direbbe Giovanni Arpino, la società è un’anima persa. Come quella di sorella Dorothy, che quella mattina, da sola, inseguita dalle minacce, alzò la bibbia dovanti alla faccia per proteggersi dai fucili dei sicari.
Invece di canonizzare un frate qualsiasi del millesettecento, fate santa Sorella Dorothy, magari così i suoi assassini pagheranno.