La scorsa estate ho frequentato un corso alla London School of Journalism. Durante una delle lezioni l’insegnante ha chiesto a ciascun componente della classe di immaginare il lettore tipo di un suo possibile articolo.
Arrivato il mio turno, ho iniziato ad elencarne le caratteristiche: woman, 30something, single, no children, living in metropolitan area, middle/high education, professionally involved, journalist… precaria? La parola mi è rimasta ferma sulla punta della lingua: non sapevo come esprimere il concetto in lingua inglese. Ho guardato l’insegnante in cerca di un appiglio che non è arrivato. Lei mi osservava senza capire.
Io avevo stampata in fronte una domanda: come si dice precario in inglese?
Su Wordreference troviamo temporary employee oppure occasional worker, ma tutti i precari italiani saranno d’accordo che questi termini non rendono l’idea, giusto?
La verità è che non c’è una traduzione soddisfacente per definire una situazione che è prettamente legata al nostro Paese. Infatti, con l’altra ragazza italiana presente in classe ci siamo scambiate uno sguardo d’intesa che però è stato solo parzialmente salvifico.
Poi a un certo punto l’insegnante illuminandosi ci ha dato la sua versione: ‘Oh… do you mean freelance?’ E io: ‘Not exactly…’ La mia compatriota allora mi è venuta più concretamente in aiuto, spiegando che ‘It’s a typical italian condition!’.
Poco prima l’insegnante aveva detto (di fronte a una classe con almeno dieci nazionalità diverse, dunque senza alcun compiacimento gratuito) che noi italiani, quando andiamo a lavorare all’estero, siamo determinati come pochi e di solito raggiungiamo il successo. Io mi sono azzardata a dire che FORSE, il punto è che le cose in Italia sono talmente tanto difficili che se uno decide di provarci all’estero è davvero motivato, dunque spacca. Lei mi ha risposto picche, tradotto: ‘It’s difficult everywhere.’
Insomma la giustificazione che troppo spesso tutti noi precari esistenziali italiani ci diamo, prendendocela con le contingenze congiunturali del nostro Bel Paese, non me l’ha fatta passare liscia. E allora non stiamo a formalizzarci sui termini… “Ok, freelance”– ho ceduto.
L’episodio mi è rimasto così impresso che ho deciso di raccontarlo in apertura di questo blog. Lo trovo emblematico e sono fermamente convinta che il precariato stia diventando sempre più una condizione esistenziale piuttosto che lavorativa. Eppure, e questo è il bello, se riesci a volgerlo a tuo favore anziché subirlo puoi non solo venirci a patti ma anche apprezzarne gli aspetti positivi. Soprattutto se, come me, sei uno spirito irrequietamente curioso e continuamente in cerca di stimoli.
Questa premessa per introdurre il mood di questo blog, che non è un blog sul precariato lavorativo e non è un blog femminile. E’ il blog di una freelance emozionale, con tutto ciò che ne consegue.
Qui parlerò di vita “in translation” (come la mia, che sono sempre su un qualche mezzo di trasporto!); lavoro precario (o flessibile, come lo chiama chi vuol guardare sempre il bicchiere mezzo pieno); vita da freelance; ‘epifanie metropolitane‘, dettagli e momenti di trascurabile felicità del quotidiano; relazioni nell’era del precariato esistenziale; …annessi e connessi.
Ovviamente, il tutto dal punto di vista di una rossa… che è diverso per definizione 😉 Se ne avrete voglia, seguitemi!