L’onesto JagoGrotowski, Palladio e la Fender Stratocaster

Not history's bones... (foto di Stefano Bodinetti-Accademia Olimpica) Il “Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards” è una comunità apertissima e chiusissima. Aperta, perché costantemente in...

Not history’s bones… (foto di Stefano Bodinetti-Accademia Olimpica)

Il “Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards” è una comunità apertissima e chiusissima. Aperta, perché costantemente in viaggio attraverso culture e paesi. Chiusa, perché vive di ricerche appartate, profonde, intime, personali e tecniche al tempo stesso.

È noto che il maestro polacco abbandonò presto la forma-spettacolo per dedicarsi totalmente alla ricerca, alla formazione, all’indagine, cambiando inesorabilmente – anche e forse più di quanto non avesse già fatto con i suoi capolavori come il Principe Costante – la storia del teatro. Perché da allora, si sa, il “processo” formativo, ovvero il training, ha assunto sempre più importanza per un attore, almeno quanto l’esito scenico. Questa “scuola senza fine” capace di investigare il sapere dell’uomo, di affondare nel Sé attraverso le possibilità del teatro, aveva trovato presto sede vicino a Pontedera, la cittadina toscana diventata così, nel tempo, una capitale mondiale del teatro, grazie a un gruppo di teatranti guidati da Roberto Bacci, e soprattutto grazie a Thomas Richards, Mario Biagini, Carla Pollastrelli, e pochi altri che hanno dato un contributo fondamentale alla “causa” del Workcenter di Pontedera.
Curiosa storia, quella di Pontedera: casa emotiva, sentimentale, per molti uomini e donne del teatro. Casa dell’utopia: là, vicini vicinissimi a una delle industrie più popolari d’Italia, la Piaggio, Grotowski lavorava per (re)inventare o (ri)scoprire l’uomo. Le leggende si rincorrevano: le “action”, dimostrazioni di lavoro aperte, fatte nel passato, destinate a pochi spettatori invitati alla volta, erano momenti di commovente condivisione.
Poi il Maestro è scomparso, ma il Workcenter ha continuato il suo lavoro.
E la piccola e infinita comunità ha continuato a aprirsi e a stringersi, a viaggiare nei cinque continenti e a appartarsi, a riflettere su se stessa. Facendosi carico, ancora e sempre, della storia del Novecento teatrale, di tutte quelle ricerche, quelle tensioni, quelle esplosioni che da Grotowski sono scaturite.
Ora, in questo lungo viaggio emotivo e geografico, il Workcenter ha fatto tappa nel più antico teatro coperto d’Occidente: l’Olimpico di Vicenza, creato da Andrea Palladio. E lo ha fatto con un omaggio alla poesia, e forse alla vita, del poeta americano Allen Ginsberg, con Not History’s bones, a Poetry concert.
Entrano in scena correndo, guidati da Mario Biagini, e sono subito là, impossessandosi del palco enorme e difficile, con la loro energia e la loro bellezza. Voglio subito citarli tutti: Mario Biagini, Felicita Marcelli, Alejandro Rodriguez, Lloyd Bricken, Robin Gentien, Suellen Serrat, Graziele Sena, Agnieszka Kazimierska, Luciano Mendes de Jesus, Ophelie Maxo.

Con loro, grazie a loro, lo spettacolo è un arioso concerto teatrale, una teoria di canzoni, di poesie messe in musica: con due chitarre classiche, una Fender, e molte percussioni, i performer in scena regalano una straordinaria sequenza di “doni” in forma di emozioni. Assistendo allo spettacolo, a vederli là, con alle spalle la magnifica e marmorea prospettiva dell’Olimpico, ho pensato che quel lavoro era un grido alla giovinezza. Una giovinezza eterna, ma tale proprio perché evanescente, già sfuggita. Con i loro costumi molto alla “Hair”, con quel sapore vintage da musical anni Settanta che s’insinuava nelle sonorità capaci di evocare il folk americano di Joan Baez o certe ballate acustiche dei Pink Floyd (bellissima Kaddish che evoca Mother), con il gusto retrò della Beat Generation, i performer del Workcenter erano, incarnavano, la bellezza della gioventù.
Erano quasi, le donne in scena, come le ninfe rinascimentali care a Warburg; e loro, gli uomini erano i ribelli del 68, erano gli “eroi giovani e belli” di sempre. Erano i nostri padri, siamo stati noi, saranno i nostri figli: attraverso le parole politiche e liriche di Ginsberg, il Workcenter sembra voler rendere omaggio alla rivolta giovane, alle canzoni, all’utopia di un mondo che – comunque, amaramente – non sarà. Sappiamo, con la consapevolezza di oggi, non essere stata. Allora, quel canto si muta, sottilmente, da felice evocazione di un’eterna primavera, nella consapevolezza dell’autunno incombente: nel commovente solo di Felicita Marcelli che è tratto dalla poesia On the Cremation of Czogyam Trungpa, Vidyadhara, c’è paradossalmente già l’eco dell’essere-per-la-morte di Heidegger, c’è già il sapere che tutto finirà.
Che quei sogni – la libertà, la comunità, l’amore – sono destinati ad attenuarsi, a essere sconfitti: come la Beat Generation, come i figli dei fiori, come quel grande sogno rivoluzionario di cambiare il mondo, quando poi, in realtà, il mondo ha cambiato noi.
Allora, forse, solo il Workcenter poteva cantare – con lieve candore – quello che “avrebbe potuto essere”, la fine delle utopie: proprio perché carico del proprio passato, consapevole della storia, con un doppio salto mortale, si fa carico di quei sogni che ha incarnato e ancora incarna, e li mostra senza alcuna nostalgia. Ed è particolarmente significativo che tutto ciò avvenga anche nel teatro di Palladio. Grazie a Roberto Cuppone e al Laboratorio Olimpico, e alla stagione di Theama Teatro che ospita l’evento, il Workcenter con Not History’s bones… si pone dunque dialetticamente tra passato e presente, tra marmorea memoria (teatrale) e vita (interpretativa) vissuta.
Con quei meravigliosi interpreti, ciascuno intensamente presente a se stesso e al pubblico, con la loro maestria che si traduce in semplicità e leggerezza, il concerto – dietro quel sapore apparentemente naif – decolla verso una visione del mondo, verso un racconto del mondo, che ciascuno, in platea, declina sul proprio vissuto.
È la scossa elettrica di un teatro ancora disperatamente vivo, di un mondo che combatte – allora, negli anni Settanta, ma anche oggi – per sopravvivere. È la bellezza, la giovinezza, che dunque non vuole farsi nostalgia o ricordo. E dunque, parafrasando il titolo, pur conoscendo il sapore della sconfitta, pur sapendo le contraddizioni del presente, queste non sono ossa della storia: oltre ogni personaggio possibile, oltre ogni immedesimazione, oltre ogni teatro, la poesia vibra ancora, sempre di nuovo.