Che poi uno dice che il teatro è roba vecchia. Che non sa stare a tempo col tempo.
Poi capita che nello scintillante programma del Romaeuropa festival – che bell’aria tira, da quelle parti: aria fresca, vivace, di intelligenze vive che arrivano da tutto il mondo – incappi nello spettacolo di Antonio Latella. Che è un bravo regista italiano, uno dei migliori, e proprio perché è bravo lavora quasi più all’estero che in Italia.
E dunque, proprio quando Roma si affannava a trovare sistemazione per l’ingombrante e sgradevole cadavere di un vecchio nazista deficiente e insopportabile sia da vivo che da morto; e mentre al Ghetto della città, con eterno e immutabile dolore si ricordava il feroce rastrellamento degli ebrei di settanta anni fa; dunque, dicevo, mentre succedeva tutto questo, all’Eliseo andava in scena Die Wohlgesinnten, ovvero Le Benevole, lo spettacolo che Latella ha diretto con gli attori dello Schauspielhaus di Vienna.
Il lavoro è un mirabile adattamento dal romanzo omonimo di Jonathan Littell: romanzo complesso e ostico, già di suo, e molto discusso all’uscita nel 2006. Vi si raccontano storie della seconda guerra mondiale, dal punto di vista del carnefice: attingendo anche a miti classici (da Oreste a Elettra, alle Erinni alle Eumenidi, le benevole del titolo), Littell narra di un giovane che si fa nazista, un SS, solerte nell’applicarsi allo sterminio degli ebrei.
Allora, assistendo al dipanarsi dello spettacolo, mi veniva da pensare di quanto una attenta programmazione come quella di Romaeuropa, e una sensibile opera, come quella di Latella, potessero raccontarci il nostro tempo, il nostro essere nel tempo.
L’Italia, si sa, ha poco e nulla elaborato il suo passato fascista: le leggi razziali, le violenze, le stragi perpetrate in nome del Duce – ancora evocato e rimpianto non solo da orridi oggetti come busti, testoni, cimeli, che si vendono all’aria aperta, ma anche da plotoni di nostalgici idioti al cimitero di Predappio o nelle curve di certi stadi. Così, in Italia, c’è chi può serenamente dirsi fascista, buttandola in caciara; oppure affermare che poi, in fin dei conti, i primi anni del regime non erano così male, con buona pace di Matteotti o Gobetti. A fronte di tanta ottusità (peraltro l’apologia di fascismo sarebbe pure reato), la Germania invece ha severamente fatto, e continua a fare, i conti con il proprio passato.
E nello spettacolo di Latella, con i suoi quattro straordinari interpreti, ci si confronta con la storia, la grande e la piccola storia; si svela l’adesione al male di un raffinato intellettuale, di un borghese decadente che non esita ad aderire al Reich.
Ma pensavo, assistendo al lavoro, che a Vienna, allo Schauspielhaus, Le Benevole è uno spettacolo in cartellone, qualcosa di “normale”: come da noi andare all’Argentina a vedere che so, tanto per fare un esempio, il teatro di Calenda o di Proietti. E l’abbonato medio viennese si confronta, in una sera, con tutta quella matassa, con quella complessità, con quel fardello.
Il fatto che Romaeuropa abbia reso Le Benevole un qualcosa di “straordinario”, invitandolo (giustamente), nell’ambito della vetrina festivaliera, facendone un “evento”, lo ha però forse fatto “slittare” di categoria, in un territorio diverso cui invece lo spettacolo non dovrebbe rientrare. Perché si creano errati eccessi di aspettativa: quando invece si è di fronte, semplicemente, a un “buon” prodotto. Dunque ho provato a resettarmi, a immaginarmi di essere un viennese medio, di uscire da casa, magari in Berggasse 19, e andare fino a Porzellangasse, a teatro per vedere appunto Le Benevole. Che giudizio ne verrebbe? Quanto sarei colpito da quella magmatica, virulenta, confessione di atrocità e violenze tutta tedesca? Davvero tanto, proprio per la costante elaborazione del passato violento che la cultura tedesca ha fatto.
Da noi, al contrario, certi temi, certi percorsi della memoria, s’è detto, sono lontani, svagati: per il pressapochismo nazionale, forse. E, all’Eliseo, messi di fronte a un “evento”, da cui ci aspettiamo tantissimo, reagiamo invece in modo più dimesso, più distante, più annoiato.
Eppure, da spettatore italiano medio, mi accorgo invece che, con il passare dei giorni, cresce in me il “fastidio”: fastidio positivo s’intende. Là, in sala, pur estasiato dalla fantastica interpretazione degli interpreti – e vale la pena citarli: Thiemo Strutzenberger, Steffen Höld, Barbara Horvath e l’italiano Maurizio Rippa – micidiali e millimetrici, tra mille sigarette e bevute, nel raggelare e rendere tagliente ogni sfumatura, non ho amato certi eccessi (ad esempio, una sequenza strobo lunghissima), né mi sono scaldato per le derive omoerotiche del protagonista o per il sottotesto del doppio, del rapporto incestuoso tra fratello e sorella. Né tanto meno, ho patito sulla mia pelle lo stridio della violenza nazista.
Però, di fatto, pur sedendo accanto ad una splendida signora, nelle oltre tre ore di rappresentazione non mi sono distratto, non mi sono annoiato un istante: sono uscito, come immagino molti spettatori, affaticato, scosso, innervosito. Infastidito di quel fastidio sottopelle, dicevo, che ancora dura.
Perché poi, forse, ed è la cosa più significativa, qui si fanno i conti con l’eterno ritorno del male, mostrando freddamente – banalmente avrebbe scritto qualcuno – come quel male possa essere sostenuto, attraversato, attuato da ciascuno di noi. Indipendentemente dalla classe sociale, dalla cultura, dai sentimenti. Le Benevole, dunque, non serve a spiegare Priebke, men che meno a giustificarlo: ce lo mostra. Ed è anzi una condanna aspra, senza appello non solo di quella violenza, ma anche di noi, del nostro tempo distratto, del nostro essere colpevoli di superficialità. E ci dice quanto il teatro, anche il teatro “medio”, d’abbonati, il teatro da cartellone e stagione, possa – e dovrebbe – affondare sempre i denti nella carne amara del tempo.