Una scena di “Dopodichè, stasera mi butto”
È curiosa la “formazione teatrale“, in questo Paese – come tante altre cose di questo Paese. A fronte di una miriade di scuole e scuolette di teatro, sparse in tutta Italia, di livello assai discutibile, ci sono alcune eccellenze che da tempo proseguono un ostinato percorso di qualità e riflessione sistematica su quel che vuol dire insegnare l’arte del teatro.
Grazie alla storica e mitica Accademia “Silvio d’Amico” di Roma, alla vitalissima e articolata “Paolo Grassi” di Milano; alla scuola del Piccolo di Milano a quella dello Stabile di Genova; ad alcune altre (non escluso il Centro Sperimentale di Cinematografia) o a iniziative private – penso ad esempio al Centro Santa Cristina creato da Luca Ronconi – che si affiancano al lavoro svolto da Università o di strutture come La Biennale di Venezia, l’Italia ha saputo resistere allo smantellamento sistematico di modelli culturali e di riconoscimento del mestiere d’attore.
Così, di fatto, nonostante il disinteresse della politica, la categoria si è consolidata – qualitativamente e intellettualmente – e oggi l’Italia vanta un livello medio di attori e attrici decisamente buono, articolato, sempre più di standard europeo.
In quest’ambito, allora, è interessante notare la costante crescita di quella che era una piccola scuola, e che però, negli ultimi anni, comincia a “sfornare” ottime individualità. Parliamo della Civica Accademia “Nico Pepe” di Udine: realtà ancora minima se paragonata a quelle testé citate, ma di indubbio interesse, soprattutto perché collocata in una zona, il “mitico” Nordest, dove la formazione teatrale stenta ancora ad avere una sua sistematizzazione adeguata e un altrettanto adeguato sostegno da parte delle istituzioni pubbliche.
Devo dire che ho scoperto recentemente la “Nico Pepe”: se prima la vedevo per le conseguenze, ossia la qualità degli attori e le attrici che da là veniva, ho invece avuto la possibilità di conoscere direttamente la struttura, gli insegnanti, il suo appassionato direttore Claudio De Maglio. L’occasione era il premio nazionale “Giovani Realtà” che da anni la scuola propone proprio con lo scopo di riconoscere percorsi creativi nuovi e interessanti. Due giorni di frammenti di spettacolo (venti minuti ciascuno o dieci per i monologhi), ben tre giurie, tanto pubblico e una mole di entusiasmo, affetto, partecipazione rare.
Era bello, infatti, respirare quel clima di gioia condivisa, di incontro sereno, di collaborazione fattiva: tutti gli allievi della “Nico Pepe” si sono dannati per assistere le compagnie ospiti, preparando la scena, pulendo il palco, presentando ogni spettacolo, applaudendo e sostenendo sinceramente i colleghi.
Proprio quella sensazione di “festa” è la chiave per capire anche lo spirito del Premio: poca competitività, per fortuna, ma la voglia di mettersi in gioco, di confrontarsi e discutere coi giurati (magari bevendo un bicchiere a fine giornata), o ascoltare le parole sferzanti e intelligenti di un’attrice giovanissima e già affermata come Deniz Ozdogan, madrina della manifestazione. Allora vale la pena fare una velocissima ricognizione di queste “giovani realtà”, individuando non solo i prodotti più interessanti ma anche, e soprattutto, i temi comuni.
A far da filo conduttore, per molti spettacoli, è l’ansia della crisi: crisi individuali, personali, ma anche economiche e sociali. Le narrazioni procedono spesso per quadri, per brevi flash accostati in montaggi secchi, interrotti da sistematici bui che staccano una sequenza dall’altra. Tanti i riferimenti televisivi o para televisivi: il quizshow, il reality, il contest, entrano nelle drammaturgia con grande forza. Ancora: tante voci fuori campo, anche queste forse di origine televisiva, e spesso in forma di “telefonata”, vista la pervasiva presenza di cellulari in scena.
Su tutto sembra emergere l’affannosa ricerca dell’identità, la faticosa costruzione dell’identità in un mondo che va a rotoli: è un interrogativo costante, inesorabile, rivolto a sé e al mondo, che non esclude però un ritorno al politico, al gesto politico, o al racconto sociale.
Le giurie, dopo lunga discussione, hanno deciso di sommare i tre premi previsti e dividerli in uno straordinario ex-aequo. A vincere il premio Giovani Realtà, dunque sono stati in tre. A partire dalla Compagnia Generazione Disagio, nome significativo, con “Dopodiché-stasera mi butto”, scanzonata, irriverente, grottesca, furiosa gara al gioco dell’oca tra tre giovani “marginali” (un dottorando, un precario, un bamboccione casalingo) guidati da un cinicissimo presentatore, che possono aspirare, come ultima chance, al suicidio. Il lavoro è ottimamente interpretato da Alessandro Bruni Ocana, Luca Mammoli, Enrico Pittaluga, Graziano Siressi, con la vivace regia di Riccardo Pippa. Si ride tanto, e molto amaramente, per questo spettacolo che senza dubbio potrà sbocciare al meglio.
Accanto a loro, ecco la Compagnia BorgoBono per “In ogni caso nessun rimorso”, intrigante e coinvolgente affondo nella storia e nella vita dell’anarchia, tra amore e passione politica; e la Compagnia dei Ragli con l’implacabile “Ficcasoldi” racconto feroce e non privo di ironia che tratteggia il disagio dei dipendenti del gioco e delle slotmachine, piaga sociale quanto mai attuale, tutelata com’è dagli interessi di Stato. Nella categoria monologhi ancora un ex equo tra “Fuck Man, studi sull’evoluzione del genere maschile” di Alex Cendron, e “Hard Boxe” di Raffaele Romita.
Ma voglio anche segnalare, personalmente, lo sgangherato, antico, delicato lavoro del duo Giulia Angeloni e Flavia Ripa: “Santi, balordi e poveri cristi” ha il sapore del primo Ascanio Celestini, di Dario Fo, di giullarate antiche e stornelli irriverenti, di poesia e di terra.
A margine della “gara” c’è stato anche il tempo per vedere lo spettacolo che aveva vinto la passata edizione: si tratta di “Mirafiori Outlet”, regia Federica Marchettini anche in scena con Sara Tosti. Due brave e intense interpreti, per una storia dura, aspra, dolente e dolorosa, per quanto ancora da calibrare e sviluppare, sul destino della fabbrica Fiat di Mirafiori e dei suoi tanti operai.