Sere-ndipityQatar 2022. Caos calendari e incognita diritti umani

La FIFA, l’associazione del calcio mondiale, è riunita in questi giorni in Svizzera per decidere sui mondiali di calcio 2022. La sede conosciuta ormai dal 2010 pare, infatti, non essere la più indi...

La FIFA, l’associazione del calcio mondiale, è riunita in questi giorni in Svizzera per decidere sui mondiali di calcio 2022. La sede conosciuta ormai dal 2010 pare, infatti, non essere la più indicata, visto non solo la caldissima estate che caratterizza lo stato del Qatar, ma anche i problemi in chiave diritti umani.

I CALENDARI – Il comitato esecutivo FIFA ha richiamato i rappresentanti delle federazioni nazionali per discutere ipotesi su come fronteggiare i 47-50 gradi di giorno, che diventano 30 durante la notte, e le condizioni che, tipicamente desertiche, non sembrano per niente adatte all’attività fisica. In questa ottica, mettendo da parte l’ipotesi di un cambio del paese ospitante, si potrebbe optare per lo spostamento delle partite a novembre e dicembre, quando le temperature scendono intorno ai 26 gradi, con condizioni simili all’estate europea. Ma i dubbi avanzati sono tanti e sono soprattutto quelli indicati dalle federazioni europee, che sarebbero costrette a bloccare per due mesi i campionati nazionali e le competizioni europee. Insomma, la proposta del capo del calcio mondiale, Sepp Blatter, non entusiasma gli amanti del calcio europeo, che si vedrebbero sfilare serie A, Liga, Premier League più Coppa dei Campioni e Europa League per far spazio alle nazionali. Un mix di tradizione, soldi, diritti tv cui in pochi pare vogliano rinunciare.

LA QUESTIONE DIRITTI UMANI – Tuttavia, al di là dell’aspetto sportivo e nello specifico calcistico, con tifosi di tutto il mondo scalpitanti di conoscere le sorti del Mondiale tra nove anni, c’è un altro lato oscuro, quello di chi sta lavorando, nell’anonimato, perché le infrastrutture necessarie per un evento di questa portata siano pronte in tempo.
La questione riguarda i diritti dei lavoratori provenienti da altri paesi e impiegati da governo e aziende nazionali: ad avanzare perplessità sul rispetto delle più elementari condizioni di lavoro è stato il Guardian. L’inchiesta del giornale inglese ha messo in luce i numeri della tragedia che si sta consumando nel paese del Golfo: almeno 44 lavoratori avrebbero perso la vita tra il 4 giugno e l’8 agosto, più della metà per problemi di cuore o incidenti sul lavoro. A questo si aggiungerebbero la mancanza di compenso per i lavoratori nepalesi (i cui stipendi e passaporti sarebbero stati confiscati per evitare che abbandonassero il paese e avrebbero infatti chiesto asilo come rifugiati nell’ambasciata di Doha) e il divieto di bere acqua durante le ore di lavoro. Secondo alcune testimonianze, le aziende costringerebbero i loro dipendenti a dormire in stanze da 12, con alti rischi di diffusione di malattie, e lavorare per 24 ore senza sosta e senza cibo.

Un quadro di sfruttamento che nulla avrebbe a che fare con i valori dello sport e metterebbe sotto accusa il governo del paese più ricco e i danni provocati alla nazione più povera del mondo. Il Qatar ha oggi il più alto numero di lavoratori immigrati, più del 90%, e si prevede l’assunzione di 1 milione e mezzo di lavoratori per la costruzione di stadi, strade, porti e hotel in vista dei Mondiali di calcio. Dal canto suo, il Nepal fornisce il 40% della forza lavoro dello stato asiatico, con 100mila lavoratori giunti solo nello scorso anno. Secondo Human Rights Watch, per il Qatar si può parlare di “Modern day slavery” in cui lo sviluppo coincide sempre più con forme di schiavitù ai danni lavoratori immigrati da altri paesi dopo aver chiesto prestiti o aver ceduto le loro terre per pagare i costi del viaggio e del visto. Ma nonostante questo, nessuno in Qatar sembra scandalizzarsi: 225,000 cittadini su 1.7 milioni sembra essere soddisfatto delle scale sociali, in cui si elargiscono benefici ai più ricchi mentre i meno fortunati sono costretti a rimanere nella povertà. Anche per questo, tra i paesi del Golfo, il Qatar è l’unico, a differenza del Bahrain, del Kuwait e dell’Oman, a non aver sperimentato nessuna protesta di piazza.

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