“Lo splendore dei supplizi”, foto di Ludovica Galeazzi
Ho un bel po’ di cose su cui scrivere: in questi giorni di primo autunno si moltiplicano, infatti, le proposte sceniche, molte delle quali interessanti, come un sorprendente lavoro di Marco Travaglio, e continua la discussione (sempre più radicale) su quello che il “caso Valle”. Dunque, devo darmi da fare.
Intanto, vorrei chiudere il discorso sul Festival StartUp di Taranto.
Volevo, dunque, fare due piccole riflessioni sugli spettacoli d’apertura e di chiusura della manifestazione, ossia i lavori di Virgilio Sieni e di Fibre Parallele.
Partiamo dal percorso del coreografo toscano. Per lui il 2013 è stato un anno intenso, di grande lavoro: Marsiglia, Biennale danza, e mille altri capitoli di un racconto che si dipana, tappa dopo tappa, in tutta Italia, a partire dalla sua Firenze.
Anche a StartUp Teatro, Sieni ha fatto danzare chi non danza, ha fatto scoprire il movimento, il corpo, a chi del proprio corpo non fa uso “coreografico” ma quotidiano, semplice, trattenuto, a volte goffo. Il sogno di Sieni è quello di far danzare tutti: e ci sta riuscendo. Ogni piccola variazione, ogni sua “Visitazione”, di città in città, è un dono: è un piccolo viaggio nell’intimità di ciascuno, un commovente percorso nell’introspezione che si fa segno, gesto manifesto. Sulle note struggenti di un violoncello, di una voce lontana e calda (è la brava e candida Naomi Berrill), Sieni regala piccoli tableaux vivant, che assumono il sapore di struggenti messe in vita di opere d’arte classiche. È il caso di Taranto, ma non solo: mai come per Sieni valgono le pathosformeln care a Warburg. Quello che fa il coreografo, infatti, è di ricreare – non pedissequamente – le opere di Piero, di Duccio, della grande pittura italiana. È un rinascimento che torna, per suggestione, per sottile suggerimento, nelle pose, nei gesti, nell’esito della partitura coreografica. E il pubblico, per quanto possa non essere edotto, ritrova l’armonia, la bellezza, l’ariosità di quelle immagini archetipiche.
Su Virgilio Sieni già molto è stato scritto e detto (e molto ancora si scriverà): basti qui dire che il raffinatissimo e popolarissimo lavoro che sta facendo, in ogni dove, è davvero frutto non solo di una riflessione estetica, ma concrezione di un gesto politico, sociale, di restituzione alla polis di un senso “etico” dello stare assieme. Il fatto che il coreografo faccia “danzare tutti”, si svela come un diverso e possibile modo di stare assieme, di ricostruire una condivisione, di ritrovare una memoria storica (o un immaginario warburghiano, appunto) comune.
Per quel che riguarda il discorso di Fibre Parallele, va detto subito che il gruppo pugliese firma un lavoro decisamente di svolta rispetto al proprio percorso. Con Lo splendore dei supplizi, titolo decisamente artaudiano, Licia Lanera e Riccardo Spagnulo (affiancati in scena da Mino Decataldo) offrono una composizione per quadri, per situazioni o siparietti che sono metafore aspre e ironiche di condizioni limite. I supplizi, oggi, non sono quelli del boia che incornicia tutto lo spettacolo, ma la quotidianità, l’assurda contraddittorietà del reale, che si spinge fino a un surreale e grottesco un punto di non ritorno, che è la fatica di sopportare il nostro tempo, con le sue frustrazione e i suoi fallimenti. Ecco, allora, la coppia giovane e piccolo borghese, bella incatenata al proprio divanetto, alle prese con le ambizioni, il lavoro, la “fuga dei cervelli”, e con un gatto palliativo per immaturità esplose. Ecco il maniaco del gioco, dipendente dalle macchinette, che in un dialetto, pressoché incomprensibile per i non pugliesi, si confessa con un pupazzo da ventriloquo, evocando la madre uccisa e messa nel surgelatore (sul rapporto con la mamma ho già scritto nel pezzo precedente). Ecco ancora la badante alle prese con un vecchiaccio insopportabile, e infine i due sbandati che vendicano i propri fallimenti prendendosela con un vegano, simbolo di benessere, a colpi di salame e salcicce. Il lavoro ha ritmo altalenante, soffre un po’ nella parte centrale, rischia di limitarsi a “ritrattini” un po’ comici un po’ prevedibili di relitti umani, ma ha dalla sua la verve interpretativa di Lanera e Spagnulo (decisamente in crescita), e ha guizzi di feroce disincanto, di amara – addirittura macabra – verità. Il pubblico ride, anche rendendosi conto che i suppliziati, in fondo, siamo tutti noi.