Dobbiamo rendere merito al Romaeuropa Festival di aver portato, nella capitale, un atteso lavoro di Romeo Castellucci, quel “Four Season Restaurant”, già visto all’estero ma clamorosamente assente dai palcoscenici nazionali. Lo spettacolo fa parte di un “trittico” cui sembra legarsi contenutisticamente e tecnicamente, iniziato con “Sul concetto di Volto” e proseguito con “Il Velo nero del Pastore” e inframezzato da altre esperienze, non esclusi laboratori come quelli alla Biennale di Venezia. Sono spettacoli, questi – su cui molto è stato scritto e detto, anche polemizzato – in cui Castellucci affronta, da par suo, temi di altissima portata. Guardando a Howthorne e ora a Hölderlin, il regista di Cesena torna su argomenti scottanti ed eterni: il rapporto dell’uomo con dio. Ovvero lo spaesamento, la paura, il disorientamento di chi pone domande – senza risposta – al divino.
Questo mi sembra essere, infatti, un filo conduttore possibile dei tre spettacoli, ingaggiando il regista un fiero corpo a corpo con l’eterno dubbio, il non detto, il silenzio di dio. Ora, tramite il verso poetico della Morte di Empedocle di Hölderlin, il racconto si dipana in una feroce dicotomia tra lo sguardo sul mondo e quello sul “buio” che il mondo avvolge: buio esistenziale, vorrei dire filosofico, che è simbolicamente rappresentato dalla metafora del “buco nero” d’energia all’interno della Via Lattea. “The four season restaurant” si apre proprio evocando – con un testo proiettato sul sipario – la vertigine oscura del buco nero nello spazio, facendone sentire i travolgenti rumori. Il teatro, la sala dell’Argentina, è dunque risucchiata in quell’abisso profondo, in quel mistero di antimateria. Poi, la rappresentazione si dipana, con uno slittamento di segno forte, con una stralunata narrazione che porta lo spettatore nello spazio vuoto di una palestra (con rumori di palloni che rimbalzano e stridio di scarpe di gomma, già evocate nei precedenti lavori) dove un gruppo di donne, in abiti agresti e senza tempo, procede a una strana cerimonia automutilante: il taglio della lingua.
Ciascuna, armata di forbici, si taglia un pezzo di lingua, condannandosi così a rimanere senza possibilità di parlare: sarà un cane, poi, a ingoiare quei pezzi morti di carne. Le donne, subito dopo, danno vita a una rappresentazione posticcia dell’Empedocle: con gesti retoricamente enfatici, antinaturalisti, oppure evocanti pose da celebri pitture su temi sacri, con una radio che diffonde (in uno straniante e pedante palyback) il testo in italiano, mentre sullo sfondo è proiettato l’originale tedesco. Ai primi due atti della tragedia di Hölderlin – di una lentezza massacrante per lo spettatore – fa seguito una bellissima sequenza di “parto” multiplo: le donne si raccolgono in un gruppo da cui, con sforzi e grida, esce di volta in volta una di esse. Questa, la neonata, verrà spogliata e, con una posa che rimanda alla “Cacciata dal paradiso terrestre” di Masaccio, esce di scena. A questa lunga e affascinante sequenza, seguono una serie di visioni, di quadri, alcuni dei quali già visti in precedenti opere. Il sipario indietreggiando svela la carcassa di un cavallo; una splendida e suggestiva sequenza di lampi accecanti; un mirabile turbine che solleva miriade di corpuscoli mentre una figura lotta per sollevare una bandiera; una preghiera, una supplica proiettata sul sipario, destinata forse a Dio o forse a un amore molto più terreno: “non lasciarmi”. Infine l’immagine di un volto di donna, gli occhi chiusi.
“The Four Season restaurant” è uno spettacolo criptico, difficile, non propriamente riuscito. Lascia lo spettatore attonito, dubbioso, affaticato, incerto sul senso e sui significati: stupito, forse affascinato dall’indubbia bellezza e dalla forza di alcune immagini, ma sicuramente provato da un disagio che è frutto, probabilmente, dell’affastellarsi di situazioni sin troppo oscure, opache, non decifrabili. Si avverte l’ansia dell’artista di fronte al mondo e al divino: oscilla tra paganesimo e cristianesimo l’afflato inquisitorio di Castellucci. Da un lato un’ode nemmeno recondita alla bellezza femminile, a quella origine del mondo carnale e vera; dall’altro il mistero di Empedocle, il filosofo che cercò il senso dell’essere nella natura. E ancora la prospettiva tragica e mitica propria del poeta tedesco, folle solo di fronte a Dio (non a caso tra gli autori preferiti da Papa Bergoglio).
Osservando la trilogia, s’intuisce, insomma, la faticosa domanda a dio, che Castellucci pone incessantemente. Eppure quell’ansia, quella paura di una solitudine eterna rischia di non diventare – almeno al momento – sentimento condiviso dello spettatore. Sappiamo che, in questi anni, Castellucci richiedere molto allo spettatore: a lui affida il montaggio profondo, il senso di quei “blocchi” di emozioni e suggestioni che il regista crea sul palco. Allo spettatore – alla mente di ogni singolo spettatore – il compito di essere, come dice lo stesso Castellucci, il “palcoscenico ultimo”, il luogo in cui è possibile che lo sguardo diventi significato.
Ma qui si avverte una impossibilità per “troppo di senso”: cosa c’entra, nel titolo, quel richiamo al vero ristorante newyorkese dove Rothko avrebbe dovuto esporre le sue tele? Perché quell’accanimento antitragico per un testo eminentemente tragico come l’Empledocle? Perché quel “condannare” le attrici – pur brave – a un impianto narrativo eccessivamente mortificante per il pubblico? E infine: pur tenendo conto che “Four season” è un capitolo di un ciclo, di un discorso più ampio, vale la pena riprendere pedissequamente immagini o situazioni già mostrate nei lavori precedenti?
Non so dare, né posso dare, risposte a simili domande, che attengono alla creazione artistica. Di fatto, però, lo spettacolo lascia in me una strana sensazione, che non so descrivere bene: una sorta di rammarico inspiegabile, di empatica solidarietà, forse preoccupazione recondita, come quando si va a trovare qualcuno che sta poco bene. O come quando ci si trova di fronte a quei poeti stralunati e folli, incontrati chissà dove e come, che vivono l’amara, disperata, confusa, dolorosa, febbrile ricerca di un senso. Nella vita, non solo nell’arte.