Li avevo intravisti, poco tempo fa, mentre si dannavano a preparare palcoscenici, a montare e smontare scenografie, a presentare con passione i gruppi che partecipavano al “Premio Giovani Realtà”. Loro, i giovani allievi diplomandi della Accademia “Nico Pepe” di Udine, in occasione di quella manifestazione si erano impegnati al massimo per rendere più efficiente e ospitale il lavoro delle compagnie che partecipavano al concorso organizzato proprio dalla scuola friulana. Sono voluto tornare a Udine, allora, per vederli in azione, per vederli nello spettacolo che è stato il “saggio” finale del triennio per attori e attrici fatto dalla “Nico Pepe”.
Come esito di diploma, conclusivo del percorso, il regista Claudio de Maglio, direttore dell’Accademia, ha scelto un testo certo non facile e non molto frequentato: “L’Ispettore generale” (o meglio “Il revisore”), di Nikolaj Gogol’. È un bel testo corale, pieno di opportunità e livelli di lettura, che narra le vicissitudini di una microcomunità di una cittadina sperduta nel vasto impero dello Zar di tutte le Russie. Nel paesino si riflettono i pregi, ma soprattutto i difetti, di ogni città: corruzione, malversazione, malasanità, malagiustizia, scuole a pezzi, abusi di potere…
Insomma, sembra di essere nell’Italia del 2013: in realtà Gogol’, con arguzia e sapienza, fotografava la mesta e squalliduccia umanità dei suoi tempi prerivoluzionari. Il panico si scatena, come si sa, alla notizia dell’arrivo in città di un ispettore generale, un governativo che avrebbe valutato – e si teme condannato – le meschine usanze dei maggiorenti del borgo. Per una serie di equivoci, un giovanotto cialtrone di passaggio viene scambiato per l’ispettore in questione: ne seguono, ovviamente, momenti surreali, grotteschi e violenti, in cui il giovane imbelle prova impunemente ad approfittare della situazione e gli altri, tutti gli altri, a fare altrettanto, con piaggeria estrema. E la sconfortante attualità del ritratto umano ci fa pensare che l’involuzione della specie sia un dato ormai conclamato: stiamo peggio oggi, di allora. E quei “peccatucci” di cui parlava Gogol’ sembrano davvero veniali distrazioni a confronto con le arroganze e le complicità dei “potenti” nostrani.
Ma qui non ci importa la trama, per quanto attualissima: ci appassiona più il come quella storia venga trattata in scena, ossia se e quanto il testo di Gogol’, del 1835, riesca a tenere la scena d’oggi. Per quel che riguarda l’allestimento, dunque, va detto subito che ciò cui abbiamo assistito ha perso ogni sapore di “saggio” per assumere quello – più ambizioso, ma certo anche più difficile – di spettacolo vero e proprio, di una qualità che non sfigurerebbe in una tournée in giro per il belpaese. Non mancano ingenuità e leggerezze, ovviamente, e non potrebbe essere altrimenti: tanto più perché si trattava di un debutto, ossia di una “replica secca”, e i miglioramenti, come è noto, potrebbero venire, e verrebbero certo, nelle eventuali repliche.
Comunque, il gruppo di compatti e motivatissimi interpreti, dopo un primo raggelamento – dovuto all’emozione, certo scusabile: ci trovavamo nel Teatro Nuovo Giovanni da Udine, il teatro grande della città – hanno preso in mano la situazione e si sono lanciati in una galoppata fatta di ritmo indiavolato ed entusiasmo contagioso.
Hanno energia da vendere, e nella compattezza del gruppo si notavano già buone individualità. Così, nella scena funzionale e dal tocco quasi suprematista di Claudio Mezzelani, la pièce assume il gusto di una diavoleria che richiama il codice energico della Commedia dell’Arte, ma fa gustare anche sapori biomeccanici che non escludono – anzi! – rimandi certi alla farsa napoletana di Viviani o Scarpetta. A partire dalla figura del Podestà, ottimamente interpretato da Sebastiano Sardo, che sembra guardare anche alla maschera claudicante di un Felice Sciosciammocca subdolamente arricchito. Allo stesso modo, il giovane “revisore”, cui dà voce e pose languide Vladimir Doda, è un dandy che non sfigurerebbe in certe commedie all’italiana. Accanto ai due “antagonisti”, è l’insieme che sa vibrare all’unisono, grazie alle brave Marianan Fernetich e Lidia Castella, eleganti madre e figlia in competizione senza esclusione di colpi; grazie agli ottimi Alessandro Maione e Lorenzo Tolusso che sono Dobcinskij e Bobcinsky, quasi gemelli, tra Kantor e Tin Tin.
Si fanno ben valere anche Gabriele Zunino, Giovanni Raso nei panni del servitore Osip, e con loro Diego Coscia, Elisa Pistis, Lorenzo Tolusso, Anastasia Puppis. Sicuramente dimentico qualcuno: ma il cast era davvero numeroso, tanto da far pensare che solo certe scuole di qualità potranno, in futuro, assumersi l’onere e l’onore di portare in scena un “repertorio” ormai impossibile da allestire in “normali” condizioni produttive.
Se questi erano gli allievi del terzo anno, subito “dietro”, in parti forse minori, erano già pronti gli allievi del secondo anno: fiato sul collo, insomma, e palcoscenico condiviso. L’anno prossimo li vedremo come protagonisti.
Che futuro attende i diplomati? Chi sa. In questo paese che sdegna le arti, diplomarsi come attore è un salto nel buio. Basteranno qualità, impegno, determinazione per lavorare e magari sopravvivere dignitosamente?