L’ultima volta che ho visto Muta Imago ero a Teheran, in una edizione particolarmente tumultuosa del prestigioso Festival Fadjr, nel 2011, anno di grandi scontri e di vittime.
Con “Lev”, in quell’occasione, la compagnia vinse il premio come miglior spettacolo e Claudia Sorace si conquistò il riconoscimento alla regia. Conosco il percorso della giovane e tenace regista romana sin dai suoi esordi, e ho sempre apprezzato molto la qualità, la serietà e la modestia – virtù rara – del gruppo che ha formato con Riccardo Fazi.
Li ritrovo ora in scena, nel vivacissimo Teatro Biblioteca Quarticciolo, nell’ambito del Romaeuropa Festival. Propongono “Pictures from Gihan”, la loro nuova creazione.Dunque, sono sbarcato nello storico e popolare quartiere romano animato dalla migliore curiosità, anche perché lo spettacolo – a leggere le note di presentazione – ha a che fare con la rivoluzione egiziana, segnatamente con i fatti emblematici di Piazza Tahrir, dove, si ricorderà, il 25 gennaio 2011 sono iniziati i moti rivoluzionari contro l’allora presidente Mubarak.
Recentemente ho avuto modo di confrontarmi direttamente con le tensioni che agitano il Maghreb e il Medio Oriente. La partita, da quelle parti, è molto complessa e aspra e non sta certo a me dirlo: lo scontro in atto tra Sciiti e Sunniti disegna uno scacchiere in continua mutazione, dove superpotenze come Iran, Arabia Saudita, Siria, Egitto, Turchia, e potenze economiche come Qatar o EAU hanno ruoli complessi, non facilmente decifrabili o catalogabili. La cosiddetta “primavera araba”, di cui la rivoluzione egiziana è stata un capitolo e un motore fondamentale, è dunque un fenomeno di complessa decifrazione, non facilmente incasellabile, ancora in essere e in ebollizione: un fatto violento, come tutte le rivoluzioni, che può essere per tanti aspetti entusiasmante, ma che va trattato con grande cura e competenza.
Spiace, allora, e molto, che Muta Imago – pur partendo da un afflato evidentemente di sincera adesione – abbiano preso spunto dai fatti di piazza Tahrir per fare quello che loro stessi dichiarano un “progetto”. A due anni di distanza dai primi moti, i giovani autori intendono – unilateralmente – dedicarsi a quei fatti come “fenomeno mediatico” – e già su questo ci sarebbe molto da dire -, inseguendo le tracce che una ragazza (trovata a caso, suppongo), ovvero la Gihan del titolo, ha lanciato via Twitter o Facebook. Va ricordato che per quei Paesi, dove forte è la censura, i social network sono stati e sono una risorsa serissima. Gihan, dunque, per questo viene scelta dalla compagnia come oggetto di ricerca. Così, nello spettacolo, Fazi e Sorace, con grande dispendio di tecnologie, raccontano del loro desiderio di mettersi in contatto con la Gihan – che nel frattempo sta tutti i giorni in piazza a manifestare e non risponde. Le mandano frammenti video di vita borghese romana (o belga: uno dei due sta a Bruxelles); cercano di organizzare un viaggio al Cairo, nell’agosto 2013, rinviato all’ultimo perché, pensa un po’, al Cairo hanno messo il coprifuoco.
Insomma.
Pur capendo il sincero slancio della compagnia, lo spettacolo ha creato in me un crescente nervosismo. Fare i rivoluzionari con le vite altrui è facile: troppo. E trattare certi eventi con tanta superficialità è preoccupante, nonostante i rimandi scientifici o i documenti video. Vero è che i due mettono in gioco le proprie vite, le autobiografie,, come strumenti per manifestare la loro completa adesione al “progetto”, ma può bastare?
La scena li vede ricostruire conversazioni skype, mandarsi messaggi, far gran uso di video, ricostruire suoni, con ogni tecnologia possibile. Ma il racconto, in italiano e inglese, drammaturgicamente fragilissimo, si esaurisce nell’arco di un piccolo lampo: 45-50 minuti per raccontare il loro inseguimento alla rivoluzione egiziana.
Mi pare di ritrovare, sottotraccia, la fatica di una generazione che vorrebbe rivoltarsi, che vorrebbe scendere (di più) in piazza, che vorrebbe emulare i cugini mediterranei, ma non lo fa. Quasi con frustrazione, con malcelata rassegnazione (o addirittura con invidia?) ci si accontenta di condividere frammenti di vita, come se l’autobiografismo esperenzial-sentimentale, sul modello di facebook, fosse sufficiente.
Là sparano, muoiono; qua facciamo estetismo tecnologico.
Torna in mente, ancora una volta, lo “sguardo di Ulisse”, quella fascinazione per l’esotico, per il folklorico, che noi occidentali riusciamo a mettere su ogni cosa sia al di là della Puglia. Non so se Gihan sia felice di diventare una finzione teatrale: probabilmente sarà stata anche contenta di questa “attenzione” dell’Occidente. Non credo, però, che il contributo di Muta Imago alla rivolta di Piazza Tahrir possa essere considerato serio: quel che resta, allora, è solo l’ennesima conferma di una pericolosa autoreferenzialità; e la presunta empatia non fa che rimarcare la distanza. Anche quando vorremmo parlare del mondo, parliamo di noi.