CineteatroraLecito perdersi, illecito tradirsi

Difendere un territorio, sia esso una metafora di genere o un luogo fisico con una lingua materna, implica nel peggiore dei casi erigere barriere o all’opposto, nel migliore, usare le armi dell’ir...

Difendere un territorio, sia esso una metafora di genere o un luogo fisico con una lingua materna, implica nel peggiore dei casi erigere barriere o all’opposto, nel migliore, usare le armi dell’ironia, della dislocazione linguistica e del coinvolgimento performativo per non cedere al pressapochismo che vorrebbe ridurre il discorso a una battuta di caccia fra spacconi.

La rassegna Illecite visioni a tematica LGBT – per il secondo anno ospite felice e appagata del Teatro Filodrammatici di Milano, grazie all’ottima direzione artistica di Mario Cervio Gualersi – ha dimostrato ancora una volta quanto i territori teatrali siano agili e ben disposti ad accogliere la sperimentazione di un tentativo che, a occhi ignari, apparirebbe forzato e ghettizzante se l’ufficiale programmazione di prosa italiana non fosse così pervicacemente vuota di esempi e ridotta appunto a tradursi in rari festival dedicati.

Di una volontà tenace si tratta, invece, a maggior ragione con una doppia sequenza di spettacoli il sabato sera e un intermezzo di vera e propria incursione comica. L’accompagnamento costante di una postazione per aperitivi e un carnet di eventi e incontri, tra cui l’appuntamento con Mauro Coruzzi in arte Platinette per discutere di icone gay, hanno nutrito una quattro giorni inaugurata giovedì 7 novembre con uno spettacolo di Benedetto Sicca, Frateme, sullo scenario partenopeo di quartieri allo sbando e proseguita venerdì 8 con Filippo Luna e il suo You know… di Dio e del sesso. Frasi, gestualità, avvicendamenti scenici, scomode interlocuzioni e interrogazioni su drammaturgie congenite al dolore cosiddetto scabroso e alla tenerezza che si incastra avida e sofferente tra le testimonianze riscritte e i dibattiti.

Il passo successivo è stato l’approccio più comico e non meno amaro che ha coinvolto il pubblico folto e pagante del sabato sera con Bevabbè, commedia scritta e interpretata dalla vulcanica Dodi Conti per la regia di Maria Cassi. Una vicenda in solitaria che, nella serata dedicata all’omosessualità femminile – per cui già il gruppo Lesbiche Fuorisalone ha provveduto di recente a organizzare una minirassegna e sta costruendo con Illecite visioni, Festival Mix e CIG Arcigay Milano una rete sempre più aperta a contaminazioni – raccoglie sarcasmi, goffaggini e panico di una donna che decide di fare il passo più lungo della gamba e gettarsi nella vita eterosessuale, stanca di una noiosa nonché sofferente e ormai troppo confortevole frequentazione gay durata trentacinque anni.

Lo spazio dato alla parola è rotto da mosse e fisicità viscerali, ritratti spassosi, impossibili coniugazioni al maschile e classificazioni dell’esemplare virile edipico, psico-depresso o inguaribile traditore che rendono lo stesso sempre più infrequentabile. Dodi Conti è davvero trascinante e non si può non restare agganciati dalla sincerità con cui descrive i flop uno dopo l’altro o le arguzie che si contendono il finale con la confusione assoluta e regina dell’oggi, dove dichiararsi per qualcuno è ancora uno sparo in gola e per altri una prova di umorismo in cui verità e crepe vengono sempre a galla.

Diversa attitudine scorre dalla Sicilia di Nino Gennaro, autore corleonese di Una divina di Palermo cui mestiere e indole di un attore consapevole come Massimo Verdastro sanno assumersi il coraggio scenico e umano di partiture sincopate per frammenti, stralci, rivendicazioni ed evocazioni liriche con la virulenza connaturata alla confessione e al monologo spinto. Già dall’incipit che, nel gioco linguistico di reinvenzioni fa dichiarare al corpo di portare in giro la propria carcassa, non sono ammessi margini in cui ritrarsi, il varco è aperto e sbattuto in faccia nel mezzo di luoghi e nomi letterari. E lievita così un bisogno reiterato di compagnia tra stacchi musicali in cui il pubblico non può e non deve restare inerme, ma incaricarsi quasi d’essere l’angelo cui la divina si appella per un poco di vicinanza, oltre il muro della famiglia dissipata e la coscienza di un inghippo di contraddizioni da cui trarre piacere o già distruggersi nell’urgenza di non avere paura di morire, perché anche la morte prima o poi fa una brutta fine.

Verdastro chiede molto e attraversa lo scollamento drammaturgico di Gennaro nel ricorso sempre giustificato e leggibile a oggetti che calzano l’esibizione fragile di un tacco alto o di una stola di pelliccia, dando conto dell’insolenza tra cura e malattia, come tra penetrazione e identificazione. L’essere consunti e patiti è un testamento bisognoso di platea e intelligenze che sappiano legare tra loro versi e brutali ammissioni, fino a che un’infanzia venga restituita perché il libero narcisismo ne faccia quel che vuole.

Illecite visioni ha accolto anche questa faglia ferocemente profonda fino alla conclusione con L’enigma dell’amore in memoria dell’intellettuale Karl Henrich Ulrichs: quel che di illecito non si può davvero ammettere è solo il tradimento della propria battaglia.

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