Perché è giusto regolare le banche lo sappiamo. Ma perché regolare l’università? Questa domanda, che pare avere una certa dignità teorica, mi è piovuta in testa la settimana scorsa. Il seme è stato un intervento del mio prorettore alla ricerca Dario Braga sul Sole 24 Ore del 28 ottobre. La domanda è poi cresciuta e maturata mentre assistevo il giorno dopo a una matinée a Londra su questioni di regolamentazione bancaria. E infine è esplosa come un’emicrania ossessiva nel pomeriggio a seguito di lunghe telefonate con la mia “course manager” sui lavori di ristrutturazione del corso di laurea.
Perché lacci e laccioli? Nel sistema bancario lo sappiamo: non possiamo lasciar fallire le banche, per le “esternalità” negative che questi fallimenti comporterebbero – in parole povere, gravi problemi per la società nel suo complesso; i manager lo sanno, e tendono a espandere l’attività di investimento, e i rischi, a iosa (azzardo morale), ed è per questo che li dobbiamo regolare, dobbiamo imporre dei limiti quantitativi alla loro capacità di investimento. Sono i famosi “requisiti minimi”. Ma perché “requisiti minimi” (hanno lo stesso nome) anche in università? E, come imparerete da questo post di vita vissuta, a confronto con i lacci e laccioli del sistema bancario i requisiti minimi del sistema universitario sono bondage estremo.
Volete disegnare, o ristrutturare, un corso di laurea? La prima prova che vi aspetta è un esercizio chiamato: “la griglia”. Si tratta di comporre i corsi che costruiranno il corso di laurea in modo da includere un numero minimo di crediti (ore, per le persone comuni) per una categoria di materie, chiamate “Caratterizzanti” (B). Se la vostra laurea è triennale, dovete rispettare anche i “requisiti minimi” di un’altra categoria di materie di “Base” (A). Un’altra classe contiene le materie “Affini” (C). Poi vi restano da sistemare le materie “a libera scelta dello studente” (D), le attività legate alla tesi (E), e quelle professionalizzanti (F). Sorvoliamo sulla perfidia che vuole i crediti a gruppi di 6 (30 ore) e certi requisiti minimi (ad esempio quello D) che è 8 (per questo vi trovate a comporre un puzzle con corsi di 30 ore, di 40 o di 60 ore). Il vero problema dei requisiti minimi è che quando il regolatore fa le classi (o ripartisce i pesi, come avviene nella regolamentazione bancaria), rischia di compiere disastri. Un esempio? La classe di laurea del mio corso, che è quella di Finanza (LM 16), non riconosce tra le materie caratterizzanti l’analisi numerica. Ma come? La finanza e la fisica si disputano dal 1900 la creazione della teoria dei processi stocastici e tu non metti analisi numerica tra i caratterizzanti della finanza? Chi ha fatto questo scempio? Chi l’ha fatto dovrebbe essere portato all’alba in un poligono, bersagliato con tutti i tomi scritti su analisi numerica in finanza e finito con un colpo alla nuca di Monte Carlo Methods in Financial Engineering, noto tomo di 800 pagine di Paul Glasserman.
Comunque sia, diciamo che avete superato la prova della “griglia”. A questo punto potete lasciar perdere, come se avete risolto un sudoku, e riposare soddisfatti, oppure potete pensare di dare vita al corso: quello che in gergo si dice “attivazione”. Che vita sia! Ma perché vita sia, vi aspetta un’altra prova terribile: la prova delle “teste”. “Testa” è il termine gergale che sta per: “docente di riferimento”. Per ogni anno avete bisogno di quattro “teste”: per la mia laurea magistrale ne devo trovare 8. Non importa se siano bravi a insegnare una cosa che al vostro corso non serve. Insomma, non importa entrare nel dettaglio dei tipi di cervello. Basta che siano teste. Vale anche qui la similitudine che Dario Braga ha utilizzato sul Sole 24 Ore a proposito del reclutamento: il sistema non distingue tra portieri o centravanti, solo teste. Ma qualche restrizione c’è, e se queste restrizioni si incrociano con errori come quelli descritti sopra a proposito del gioco della “gabbia”, rischiano di scrivere la parola “game over” o “ritenta, sarai più fortunato” sul vostro tentativo di arrivare al livello superiore del gioco. Un esempio? Delle 8 teste 6 devono essere di docenti di materie “Caratterizzanti”. Così il sottoscritto, che conosce la finanza e ha messo tra i corsi obbligatori l’analisi numerica, si trova a non poter contare la testa di analisi numerica come caratterizzante e per un gioco di “domino di teste” alla fine sembra che debba sacrificare lui stesso, che per far tornare i conti dovrà cambiare il proprio raggruppamento, lasciare i corsi del secondo anno e indossare la materia “caratterizzante” del primo anno. Senz’altro vi siete persi, ma vi garantisco che non vi siete persi niente. E poi, non siamo nemmeno sicuri che l’interpretazione sia giusta. Pare che ci sia un’interpretazione in cui il sottoscritto insegna un corso “Affine”, ma può essere considerato “Caratterizzante”, aprendo la strada al dotto quesito: ma allora che minchia di classificazione è? A questo punto vi siete persi senz’altro, e noi veniamo dietro a voi. Io ringrazio solo che non ci siano vincoli di genere che mi richiederebbero un viaggio a Casablanca. Comunque, per sicurezza, ho verificato che siamo quattro teste d’uomo e quattro teste di donna.
Poi ci sono altri vincoli, stavolta meno equivochi. Ci vogliono le aule: sacrosanto, e grazie a Dio non distinguiamo tra aule caratterizzanti e affini. Poi non si può dare più del 20% della didattica a contratto. E infine non ci sono vincoli che invece ci dovrebbero essere, e sarebbero sacrosanti. Esempio? Condizionare l’apertura del corso alla presenza di un “corpo” (perché non basta solo la “testa”) che si occupi del management del corso. Questo è un requisito che noi a Bologna abbiamo imposto ai corsi internazionali, e che merita un post a parte. Qui ci basta proporre un’altra similitudine. Per aprire un ristorante, ci vuole uno chef, ma se non c’è chi segue la gestione di clienti, insomma, se non c’è un “manager”, il ristorante non lo apri, e se hai provato ad aprirlo, lo chiudi il giorno stesso.
Ed eccoci alla resa dei conti. Perché regolare l’università? La risposta è ovvia, ma non è ovvio dove porti. L’università è regolata perché altrimenti esploderebbe il numero dei corsi. Se non ci fossero i requisiti sulle materie caratterizzanti e sulle “teste”, avremmo visto paleontologi lanciare corsi di finanza e insegnare l’evoluzione dei grandi rettili. Il requisito di limitare la 20% i corsi a contratto,
evita che le università facciano cartolarizzazioni e corsi “sub-prime”. I paleontologi fanno una scatola (come l’SPV nelle cartolarizzazioni) e la scatola assume i docenti a contratto. Ma resta una domanda. Perché tanto stakanovismo? Sarebbe utile che il ministero rilasciasse i dati su quante “teste” sono rimaste libere a livello nazionale. L’impressione, su cui mi sentirei di scommettere, è che noi tiriamo le nostre “teste” come Didone tirò la pelle che le venne donata, per il suo stesso fine: coprire quanta più area possibile. Come Didone abbiamo ripartito le teste riducendo il numero di studenti per corso. E un dato che sarebbe interessante sapere è il carico didattico ripartito per settore scientifico, e il numero di studenti interessati: numeri che nemmeno la NSA conosce.
La spiegazione della regolamentazione è quindi contenere il comportamento stakanovista degli atenei. Ma perché Stakanov? Me lo sono chiesto per anni, quando dalla banca sono passato all’accademia, fin quando un vecchio preside (oggi per fortuna in pensione) mi disse che è per assicurarsi la maggioranza nel consiglio. E’ la democrazia, bellezza. O meglio, è l’uso della democrazia fuori luogo. La democrazia è desiderabile per la definizione dei fini di uno stato e anche di un’azienda e di un’università. Ma le decisioni operative e sulle risorse non si prendono a maggioranza, meno che nell’università. Non si sfrutta la domanda di corsi di finanza per assumere paleontologi. Per riprendere la similitudine di Braga, se una squadra di calcio deve decidere a maggioranza l’undicesimo giocatore, non assumeranno un portiere. So che il paragone non torna fino in fondo: loro assumerebbero un portiere perché se no prenderebbero tanti di quei goal che non si divertirebbero. Ma nel professionismo, in università come nel calcio, il divertimento è l’eccezione più che la regola.
Che fare, allora? Siamo a un bivio. Se l’università sceglie il merito, può fare a meno della regolamentazione. Ma scegliere il merito significa che chi ha teso la rete delle teste su un terreno che non sa coltivare deve lasciare quel terreno e liberare le teste. Gli atenei che non attraggono domanda devono essere chiusi, e per evitare di essere chiusi gli atenei devono tagliare i propri rami secchi. Questi tagli non sarebbero tagli alla cultura, ma tagli per la cultura. Lascerebbero libere le risorse di legarsi ad altre con le quali potrebbero produrre molto più cultura di quella che lasciano. L’alternativa è la regolamentazione, magari meno stolta di questa. E in questo caso dovremmo forse affiancare anche regole delle sanzioni: azioni di responsabilità contro i membri del CdA per danno erariale, nel caso venga rilevata un’offerta palesemente in eccesso rispetto alla domanda? Azioni nei confronti dei membri dei consigli? La nostra preferenza va ovviamente alla prima strada, la stessa indicata da Dario Braga, con la specificazione che la chiusura dei rami secchi deve essere un lemma preliminare e non un corollario della sua proposta. La strada del governo, che ha stanziato 41 milioni per il “merito” e poi li ha cancellati, indica una terza via, che mira a schiantarci nel muro in mezzo al bivio. E’ la via del: “merito se ci sono fondi per tutti”.