La critica langue. Sono giorni che penso a Lo stupro di Lucrezia, di Shakespeare, visto nella solida stagione di un ritrovato Teatro Vascello, a Roma. Ci penso, ma non mi viene nulla di intelligente da dire. Allora, ovviamente, potrei evitare di scriverne. Ma mi spiacerebbe, perché lo spettacolo di Valter Malosti, regista e interprete, non è affatto male, anzi. La stampa nazionale l’ha accolto benissimo, e la protagonista femminile, l’ottima Alice Spisa, ha appena vinto il Premio Ubu. Dunque si tratta di un buon lavoro che si presenta, ovunque, sotto i migliori auspici. Per quel che mi riguarda, l’ho seguito con attenzione. Però poi, di fatto, mi sembra di non essermi portato a casa nulla. Perché? Non so bene, ma è difficile farci un ragionamento.
Certo, sarebbe inutile dire che Shakespeare è un bravo autore. Qui, in questo aspro poemetto di fine Cinquecento, indaga senza reticenze – e con un florilegio di metafore non equivocabili – i meandri della mente dell’empio Tarquinio, deciso a prendersi la pura Lucrezia. Altrettanto bene, poi, scava nella disperazione della donna abusata e violata. Ma certo, non serve una recensione per dire che William ha saputo – meglio di chiunque altro – tratteggiare l’animo umano, anche nelle sue più abiette perversioni o nelle conseguenze del male fatto o subito, negli abusi di potere e nelle disperate declinazioni dell’amore e del sesso.
Né sarebbe interessante stare qui a raccontare la trama dello stupro.
Allora, possiamo naturalmente parlare dell’allestimento, come ogni recensione che si rispetti. Malosti si ricava lo spazio sadiano del testimone-narratore: seduto in un angolo, leggendo il poemetto accenna toni e gesti beniani, e osserva implacabile quanto accade nel ring rosso a lui antistante. Qui si muovono i due protagonisti, la citata, notevole Alice Spina, e l’audace, prestante ed efficace Jacopo Squizzato. Sono attori giovanissimi, e non esitano a mettersi totalmente in gioco in questo corpo a corpo esasperato e a tratti esasperante in coreografie – se così vogliamo dire – un po’ inefficaci. Modulano sapientemente il verso shakespeariano che, nella traduzione di Gilberto Sacerdoti, si tinge anche di toni blandamente contemporanei. Si danno allo sfinimento, recitano praticamente sempre nella totale nudità, salvo poi ricomporsi – lei in un castigato tailleur, lui in un timido pantalone militare – anche stilisticamente. Sono bravi, dunque, ma li osserviamo come in un acquario, senza alcuna – almeno per chi scrive – passione o compassione, nonostante la visibile adesione intima e sentimentale alla materia dello spettacolo.
Era questo l’obiettivo? Una specie di autopsia gelida che lascia freddo lo spettatore? Chissà, non l’ho capito.
Quanto a Malosti, che già aveva messo in scena, con altrettanto successo, un Venere e Adone, mi sembra che continui, sapientemente, a lavorare sul pop, su un teatro contaminato, a tratti ridondante, che non esita a citare Carmelo Bene (quei toni, quei movimenti della testa) o l’altro grande maestro della ricerca, Leo de Berardinis, per impianto, ironia, suggestioni visive.
Detto questo, resterebbe da dire della valenza “civile” di un simile spettacolo: che spiattella in scena la violenza sessuale, o – come si dice – il femminicidio, anche se qui il tragico epilogo si deve al suicidio per onore (tema caro a Shakespeare) e non all’ottusa criminalità maschile. Se quello era lo scopo – mi sento di escluderlo – allora l’operazione acquisirebbe un gusto “d’attualità” che certo non gli gioverebbe. Il fatto è, allora, che tanta sgradevole e poetica materia, pur moltiplicata e iperamplificata, a me – dico assolutamente solo per me: il pubblico del Vascello sembrava contento – ha lasciato piuttosto indifferente. Problema mio, con cui cerco ancora di far i conti: ma la sensazione che resta di fronte a questo bello spettacolo, al momento, è quella di aver assistito a un elegante esercizio di stile che rischio di scordare troppo presto, prima di averci fatto davvero i conti.