Voglio tornare a parlare del percorso artistico di Antonio Latella. Non tanto per piaggeria, né per adesione totale, quanto perché questo regista sta segnando, con una cifra netta, queste stagioni teatrali. L’occasione è, ovviamente, l’articolata e complessa maratona teatrale di “Francamente me ne infischio”, attraversamento del celebre “Via col Vento”, visto al teatro Argentina di Roma qualche giorno fa. Cinque ore di spettacolo, sette in totale, per una giornata di teatro che apre a molteplici spunti di riflessione. “Francamente me ne infischio”, si sa, è già stato premiato e abbondantemente recensito: rimando, da ultimo, alle belle considerazioni fatte dai colleghi di “Teatro e Critica”, Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich, che illuminano bene i pro, e i contro, di questo lavoro-evento.
E dunque ho gioco facile nel prendermi spazio per parlare d’altro, inseguendo suggestioni che pure da “Francamente me ne infischio” provengono. In molti hanno già enucleato certi temi, io li colgo adesso – e con ritardo, arrivo buon ultimo: forse sono “cresciuto” e ho capito alcuni aspetti che prima mi sembravano più confusi, e voglio provare a darne conto.
In primo luogo: la comunità. Pur nella forte impronta registico-autoriale, questo è un termine che ho sempre associato al lavoro di Latella. Anche quando gli esiti scenici delle sue creazioni non mi convincevano, era da salvare quel clima “d’insieme” che si avvertiva evidente. Ne ho avuto prova anche lo scorso 5 gennaio: all’Argentina si è data appuntamento tutta la “comunità teatrale” romana e non solo. In platea molti voti conosciuti: addetti ai lavori, artisti, appassionati. La maratona non è cosa facile, nello sport come a teatro, e bisogna dedicarle una giornata intera, ma c’erano tutti (e ovviamente meno spettatori “normali” che comprensibilmente non possono condividere una sfida-kamikaze da sette ore di spettacolo). Tutti, insomma, chiamati a raccolta per questa giornata folle e emozionante, che richiede un atto di estrema generosità da parte non solo degli interpreti – di cui dirò tra poco – ma anche degli spettatori. Allora è bello verificare quanto e come abbia funzionato, e funzioni sempre, quella “chiamata a raccolta” che Latella sa scatenare.
Poi: comunità non solo di platea, ma anche artistica, come già vedemmo a Napoli nel periodo troppo breve di direzione artistica del Nuovo. Latella ha, dalla sua, una innegabile capacità, ossia una vocazione, a creare “comunità di attori”, vorrei dire di intellettuali della scena, che lo segue con entusiasmo, in alcuni casi addirittura fanaticamente. Di lui si dice che sappia lavorare con – e far lavorare bene – gli attori in scena. Forse per la sua provenienza (è stato a lungo attore prima che regista), di fatto Latella gode dell’inseguimento costante di molti interpreti italiani, giovani e meno giovani, che vorrebbero essere diretti da lui. Anche perché è tra i pochi capaci di produrre (o farsi produrre) molti spettacoli di rilievo. Non solo: ha una crescente vocazione pedagogica che declina con cura e generosità.
E siamo al secondo punto: gli attori, in questo caso le attrici. In “Francamente me ne infischio” abbiamo visto all’opera tre straordinarie attrici. Valentina Vacca, Caterina Carpio e Candida Nieri: sono splendide, potenti, micidiali, generose, instancabili. Toccano agilmente le corde del comico o del tragico, spaziano dalla performance fisica più estrema all’intimismo narrativo più mimetico, esplodono in vertigini compositive originali e si trattengono in gesti minuti, essenziali o astratti. Come sempre, nel teatro di Latella, non tutto è condivisibile (ci mancherebbe altro: sai che noia se ci piacesse tutto!), ma le tre “angels”, le tre valchirie, le tre erinni, in scena, confermano quanto detto: attrici di grandissimo livello, duttili alle mani compositive del regista e al tempo stesso autrici originalissime – loro stesse – della propria partitura scenica.
E siamo arrivati all’ultimo tema all’ordine del giorno, e in questo momento forse il più importante.
Mi sento di dare atto, ad Antonio Latella, della sua costante, infaticabile, ostinata ricerca di una nuova drammaturgia. Questo regista si muove da tempo verso un allargamento sistematico del codice drammaturgico, delle maglie strette del repertorio. Per “Francamente me ne infischio” lavora a fianco di Federico Bellini e Linda Dalisi, ma lui costantemente si affida a dramaturg – sulla maniera tedesca – con cui intervenire non solo per “smontare e rimontare” testi classici o contemporanei, ma proprio per crearne di nuovi. Mi pare però evidente, a questo punto, che l’attitudine di Latella abbia un’originalità: quasi che il regista-autore tenga in debito conto – per fare in modo grossolano due esempi– da un lato il decennale viaggio di Luca Ronconi, che ha messo in scena ogni testo possibile; dall’altro quello di Romeo Castellucci, che ha messo in scena ogni immagine possibile. E mentre questi ultimi due continuano, magistralmente nel rispettivo campo, a creare nuovi testi o nuove immagini, forse il tentativo di Antonio Latella (come quello di altri registi-autori della sua generazione, è ovvio) è quello di portare ad un passo ulteriore, di sintesi e rilancio, il magistero di chi lo ha preceduto e accompagnato. Di fatto la sua è una drammaturgia non solo “post-drammatica” – categoria ormai inflazionata – ma direi aperta a proposte ancora in divenire, oscure e incomplete se vogliamo, ma chiaramente di scarto rispetto al panorama esistente. È una ricerca che si rivela a volte fallace, o farraginosa: come potrebbe essere altrimenti? Ma costantemente e febbrilmente messa in discussione, verificata sul campo, spinta verso altri, inediti, confini. Con quali esiti? Da valutare di volta in volta. Non ci sono formule, qui, pur all’interno di scelte estetiche precise: e questa mi sembra una ricchezza.
Continueremo, per quel che ci riguarda, da spettatori curiosi, a seguire quanto possibile il viaggio teatrale di Antonio Latella e dei suoi attori. Magari ci incazzeremo, ci indigneremo, grideremo allo scandalo: ben sapendo però che, a far da bussola a quel viaggio, vi è una passione indomita, una cura affettuosa, un amore sincero, una professionalità indubbia, uno slancio che è emotivo e razionale assieme.
Sensazioni condivise, a quanto pare, anche dalla comunità che l’altro giorno era all’Argentina: dopo tutte quelle ore stavamo là ad applaudire le tre mirabili interpreti, il regista e i suoi collaboratori. Fossi stato il sindaco Marino – ma non credo di averlo mai visto a teatro, il sindaco Marino – avrei consegnato le chiavi dello Stabile di Roma ad Antonio Latella, offrendogli subito quella che si chiama “residenza”, mettendo fine al ridicolo vuoto di gestione di quel teatro. Proclamato sul campo, in modo decisamente irrituale: sarebbe stato un bel colpo di teatro. Che, ovviamente, non è avvenuto.