(Bruxelles, 27 febbraio 2014) - Bruxelles al sole. Una rarità d’inverno, che qualcuno scherzosamente attribuisce alle due presidenze di turno nell’anno, ora la greca e poi l’italiana, che sono,...
(Bruxelles, 27 febbraio 2014) – Bruxelles al sole. Una rarità d’inverno, che qualcuno scherzosamente attribuisce alle due presidenze di turno nell’anno, ora la greca e poi l’italiana, che sono, comunque, un segnale di rialzo di temperatura meridionale in una Europa ormai nettamente centro-nordica.
Ma anche Bruxelles ventosa. Che – sempre per stare in metafora – sente soffiare tante dissimili componenti euroscettiche che gonfiano le gote contro l’euro e contro la “euro-burocrazia” soprattutto in cerca di visibilità in vista delle prossime elezioni a maggio.
E infine Bruxelles cappuccino. Con le vecchie generazioni degli eurocrati che vedono nero e, nella difficile scalata, si fermano al rifugio e i giovani in carriera che vedono bianco: hanno raccolto la bandiera del “sogno europeo” e dichiarano che il sentiero è praticabile.
Ombre e luci sull’Italia
Due giorni di back-ground a Bruxelles, nel quadro di una missione in cui Umberto Ambrosoli, che guida l’opposizione di centrosinistra in Lombardia, ha raccolto in una paziente e qualificata agenda le argomentazioni del “rischio Italia” rappresentato dal presidio leghista in Lombardia. Una regione che ha uno storico ineludibile ruolo nel rapporto tra l’Europa e il paese e che ora qui politicamente si vede meno e male anche se il suo sistema (imprese, università, ricerca, innovazione) resta ben segnalato in tutti i dossier che riguardano sviluppo e crescita.
Le giornata sono scomode rispetto all’agenda Italia-UE. Contemporaneamente – nella stessa sede della Commissione – il commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn presenta il rapporto di previsione sulla crescita. La UE non crede alle stime italiane (nella legge di stabilità per il 2014 si prevedeva l’1,1,% ) e Bruxelles taglia seriamente le stime allo 0,6% facendo precipitare l’Italia in fondo alla classifica del rapporto tra disavanzo e PIL. In altre stanze del Berlaymont, nelle stesse ore Mario Monti – piccola compensazione di immagine, contestata dal capogruppo di Forza Italia al Parlamento UE Raffaele Baldassarre – si insedia alla guida del gruppo di lavoro che ha il mandato di riformare il bilancio della Commissione (riforma IVA, revisione sistema degli sconti nazionali, tassa sulle transazioni finanziarie, eccetera).
L’atmosfera generale è di attesa, ma anche di determinazione. Soprattutto negli ambiti della Commissione, dove molti dossier vanno chiusi in tempo mirando alla programmazione 2014-2020. Fase storica cruciale quanto a ripresa e a ridisegno mondiale dei rapporti di forza in relazione ai nodi della competitività e ai fattori sociali di riequilibrio. E’ chiaro che c’è una Europa dei ragionieri, che fissa paletti sulla carta aspettandosi che i conti tornino a qualunque prezzo (e che è quella presa di mira ormai non solo dalle forze populiste). Tanto che girano ormai le statistiche dell’incremento della mortalità infantile in Grecia a causa dei tagli senza criteri sociali. Ma questo è il comportamento di tante pubbliche amministrazioni: a carta deve corrispondere carta. La realtà viene dopo. Ma c’è anche un‘Europa che si preoccupa di ridare fiato alla sua progettualità sociale, ai diritti della persona e dell’impresa, a quel complesso di riequilibri che – dicono appunto i piùgiovani – sono stati fermati al tempo del fallimento del Trattato Costituzionale senza sparire però dalla cultura dei dirigenti e dalle linee guida del rapporto tra la vocazione “comunitaria” e il peso rilevante della governance intergovernativa. Un’Europa a cui fa riferimento in questi giorni anche il manifesto firmato da una quarantina di personalità politiche e intellettuali (il solo Angelo Bolaffi tra gli italiani) che Ulrich Beck ha introdotto sulle pagine di Repubblica (27 febbraio) che spiega e caratterizza il moment of decision della partita elettorale di maggio.
L’Europa “metodologica”
E’ evidente che Parlamento e Consiglio – cioè il controllo delle nazioni sul processo di integrazione – pesano molto e negli ultimi anni con incrementi che vedono sommarsi vecchie diffidenze nordiche con nuove diffidenze meridionali e dell’est. Però il motore dell’integrazione europea non è fatto di pura emotività. L’eurocrazia non ha solo la faccia burocratica dei “ragionieri”, ma anche quella altamente tecnica dei “metodologi”. Non piacciono molto a chi pensa all’Europa come il sacco di Babbo Natale. Ma sono poi quelli che pensano che solo il rigore di certe pre-condizioni e la tenuta di certe procedure assicurino convergenze possibili. Certi negoziati estenuanti tra questi uffici e i rappresentanti di Stati e Regioni possono sembrare conflitti di sovranità. Ma a guardarli bene sono il laboratorio di una strana forma di governo che, alla fine, stinge anche su politici e dirigenti più accorti degli Stati membri. Che imparano a capire l’Europa come un misto di vincoli e di opportunità, in cui le conoscenze (lingue, procedure, coerenze) possono spostare l’asticella a proprio favore, cioè all’incremento delle opportunità.
Euroscettici al 30%
Si stima che il voto per il “no” – misto di derive di estrema destra e estrema sinistra, di scettici e di scriteriati, di leghisti e populisti, di neonazisti e di anticapitalisti radicali, dunque uno schieramento frammentato ed eterogeneo, oggi al 20% – in Palamento possa a maggio aumentare di un terzo. Ma molti prevedono che questo strattone possa vedere più collaborativi i due raggruppamenti politici più forti dell’europeismo moderato e progressista, cioè popolari e socialisti&democratici, con in mezzo la più piccola area liberale, facendosi anche sentire la brezza evidentemente forte in Europa della grosse-koalition tedesca. Così che la composizione delle cinque grandi nomine del riassetto (presidente della Commissione, presidente del Parlamento, “ministro degli Esteri” della UE, presidente del Consiglio UE ferma restando la quinta posizione coperta da Mario Draghi al vertice della Banca Europea) dipenderà dallo scarto dei voti tra socialisti e popolari ma senza effetti molto traumatici. I progressisti lanciano nel week-end a Roma la candidatura del tedesco Martin Schulz, i popolari sceglieranno alla fine della prossima settimana tra il francese Michel Barnier ora commissario al Mercato interno (che si è formalmente candidato) e il lussemburghese Jean Claude Juncker già presidente dell’Eurogruppo, che si è dichiarato disponibile. In questi assetti (da giugno a ottobre, secondo scadenze prefissate) la presenza di Draghi alla BCE limita le opportunità italiane, ma non sono escluse staffette al Parlamento UE dove cresce il ruolo e la presenza di Gianni Pittella.
Attesa per le scelte italiane
Attesa a Bruxelles ovviamente per le scelte italiane, che spettano al governo Renzi, in Commissione. Il commissario uscente Antonio Tajani (due turni, prima ai Trasporti poi all’Industria) dice che l’unica ricetta è di “esserci, stare sempre presenti” criticando il vezzo di “andare in Europa” per starci il meno possibile. Naturalmente il credito acquisito da Enrico Letta – uno di quelli che “ci starebbe” in modo competente – ne fa, a Bruxelles, un profilo gradito. Ma, si capisce, la vicenda traumatica della staffetta di governo può portare qui a ricomporre lacerazioni o ad inasprirle.
Le più evidenti preoccupazioni – tra gli italiani a tutti i livelli nelle istituzioni comunitarie – riguardano i presidi a Roma all’imminente avvio della presidenza italiana dell’Unione nel secondo semestre dell’anno. La conduzione greca viene considerata finora piuttosto buona, ma molti dossier hanno bisogno di un “paese forte” (peso nelle contribuzioni, peso di mercato, peso nei gruppi parlamentari) per determinare risultati. Quindi molti argomenti hanno percorsi avviati in questa frazione ma possono trovare chiusura nel secondo semestre a condizione di una rapida presa in consegna.
Le macroregioni
E’ tra l’altro il caso – che interessa e coinvolge larga parte del sistema regionale italiano – dell’avviamento delle macroregioni transnazionali che, dopo la Baltica e la Danubiana (in cui perno è il presidio tedesco), vedono ora in agenda prima la Adriatico-Jonica e poi la Alpina. Ambiti in cui la regola dei tre no (no a nuove strutture, no a nuove norme, no a nuove risorse) obbliga a fare i conti in modo ben governato con i fondi già assegnati (per l’Italia non pochi, 30 miliardi in sette anni, essendo il secondo paese percettore dopo la Polonia che ne vede assegnati il doppio) facendo dire agli uffici competenti di Bruxelles che la partita si gioca tutta sulla “governance” cioè sulla competenza e la serietà con cui vengono istruiti i progetti finanziabili.