La Ttempesta, con la regia di Valerio Binasco, vista in un Teatro Vascello di Roma, con il “pubblico delle grandi occasioni” stracolmo e festante, è un buon lavoro. Voglio dirlo subito: funziona; gli attori sono tutti generosi; il pubblico ci sta, ride, applaude e tributa una ovazione finale. È dunque uno spettacolo molto ben fatto, coraggioso, a tratti toccante. Ha il merito di far passare tutto il testo, in modo sicuramente efficace: di far parlare Shakespeare in modo libero e sereno. Ci sono bei momenti, alcune soluzioni interessanti, divertenti.
Ma io non mi faccio convinto. Evidentemente è un problema mio, allora provo spiegare.
L’afflato, pienamente condivisibile, di Binasco regista, da un po’ di anni a questa parte, è quello di rendere “accessibili”, ovvero “popolari” (come recita il nome della compagnia che ha fondato: la Popular Shakespeare Kompany) i testi di Shakespeare. Di trattare il Bardo, insomma, molto più che come un “nostro contemporaneo”, quanto quasi un “amico”, un fratello di viaggio: qualcuno, dunque, che ci parla, si racconta, condivide la sua storia con noi. Non un “monumento”, ma un pezzo, un istante della vita di ciascuno di noi. Impresa encomiabile, che ha trovato l’adesione di un gruppo vivacissimo di attori. Questo processo – che grossolanamente definirei di “semplificazione”, ma non voglio essere sminuente – ha dato frutti eccellenti, rendendo Valerio Binasco uno dei registi più interessanti della scena contemporanea, il cui successo è indiscutibile e meritato.
Bene, dunque. Ma c’è dietro l’angolo anche il rischio di esiti a tratti banalizzati. C’è questo rischio ne La Tempesta?
L’opera, si sa, non è proprio facile. Esoterismo, politica, società, scontro generazionale, musica, metateatralità sono solo alcuni dei temi che potrebbero emergere dal testo: mi pare, però, che l’approccio registico scelga di non abbracciarne nessuno, e anzi qui si sia tradotto non in un disegno d’insieme, quanto semplicemente nella riflessione sui personaggi.
Allora, al di là dell’efficacia, quell’opera sfuggente e micidiale che è Tempesta viene fuori come attutita nella sua complessità. Si avverte, a tratti, una grande attenzione per il “guardare”: questo termine risuona spessissimo in bocca a tutti i protagonisti dell’opera. Ma ci basta?
È dunque, mi chiedo, è questa la soluzione? Sgombrare il campo dalle paturnie interpretative e andare semplicemente in scena?
Forse sì, verrebbe da rispondere, perché in buona parte il gioco, dice il pubblico, regge e pure bene.
La suggestione visiva iniziale evoca felicemente la storica edizione di Peter Brook, con l’uso di pochi segni primari (il legno, la pietra), ma ha anche un vago sapore beckettiano (con quei costumi d’oggi, con quelle figurine sperdute e spaventate).
Però poi questa “linearità”, quest’efficacia, rischia di smorzarsi, almeno secondo me, in una versione scenica che suona, a tratti, come una “promessa” di Tempesta, quasi una annunciazione: qualcosa che non scava, non va in fondo quanto potrebbe. Così l’attenzione ricade tutta sui singoli personaggi, ossia nella “distribuzione”: e mi tocca dire che, in questa prospettiva, certe scelte sono felici, realizzate, altre molto meno.
Ariel, allora, nella validissima interpretazione di Fabrizio Contri, sembra uscire da un Aspettando Godot, con la sua aria da barbone, il cappottone lungo, cappellino e lo sguardo stralunato; o forse sembra più un Firs cechoviano, con quel suo andare lento, pigro, affaticato (come era – qualcuno lo ricorderà – l’Ariel partenopeo di Davide Jodice), cui spetta il compito di chiudere lo spettacolo.
Ecco, poi, un Gonzalo siciliano, ottimamente interpretato da Simone Luglio, capace di ricordare il miglior Leopoldo Trieste. Ed ecco infine una Miranda – con la magistrale Deniz Ozdogan – che è una fanciullina irrequieta e animale, una tempesta (lei sì) ormonale e passionale, tutta slanci e ritrosie sincere: una Miranda che quasi tiene le fila, per forza e energia, dei lenti declini altrui. Gli altri personaggi, infatti, appaiono spersi, esseri sconfitti, uomini al tramonto.
A partire da Prospero, cui Binasco dà immagine e carattere giovane di un Corto Maltese incattivito, aspro, che accetta di arrendersi (ossia di tornare alla “normalità”) proprio nel momento in cui avrà indietro la sua Milano. Altri ancora, infine, sembrano più irrisolti, contraddittori: come è Calibano, tutto gridato e teso, che non incide quanto potrebbe nonostante la buona volontà di Gianmaria Martini; o come la corte, che sembra un po’ troppo sbandata, appesantita da segni diversi (perché vestire il re di Napoli come un boss o un neomelodico?).
Ci sono ancora elementi dell’impianto che non condivido, che hanno suscitato, in me, qualche perplessità: non sto a elencarli. Ma è restata, allora, come un punto di domanda, una sospensione, una assenza: mi rendo conto che non so risolvere questo dubbio. Non so dire perché, alla fine, quel bel lavoro stia ancora ronzando, nella mia testa, come qualcosa di incompleto.
Ma forse ha ragione Binasco: il grande mistero de La Tempesta è proprio nel dubbio sistematico, nella fascinazione che esercita, anche senza sovrastrutture. È un gioco teatrale, un guardare incantati al teatro mentre si fa. Non serve la bacchetta magica, non serve la “chiave di lettura”. Il teatro basta a se stesso: e forse è più semplice stare al gioco, e applaudire assieme al pubblico.