Non avevo mai conosciuto Andres Neumann personalmente. Ma avevo conosciuto gli esiti del suo decennale lavoro come organizzatore teatrale, non fosse altro per la lunga, felice, collaborazione con Pina Bausch. Il suo nome ha sempre evocato, in me, l’eco di una “stagione dei Giganti”: quell’epoca felice e difficile in cui hanno lavorato, e forse dato il meglio, i grandi protagonisti del teatro che abbiamo amato e continuiamo ad amare.
Ho colmato questa mia lacuna in occasione della presentazione di un bellissimo volume, edito da Titivillus: “L’archivio Andres Neumann”, curato da Maria Fedi con la collaborazione di Giada Petrone. Abbiamo presentato il libro nell’affollato teatrino di Via Vittoria, lo spazio dell’Accademia “Silvio d’Amico”, in pieno centro di Roma. Un incontro che è stato molto più di una presentazione e che è servita, anzi, a ripercorrere, tra memoria e futuro, un viaggio nel teatro iniziato nel 1972.
Diversi gli spunti di riflessione.
Intanto: il libro, l’oggetto, che dunque è molto di più di una raccolta d’archivio, molto più della descrizione asettica di documenti. Nelle pagine rivive, infatti, quel pezzo clamoroso di storia del teatro contemporaneo, quella stagione dei giganti cui facevo cenno. È la ricostruzione di uno spaccato vitalissimo di “teatro fatto” attraverso il racconto del lavoro di chi ha creato e ha dato corpo, effettivamente, sul campo, a un’idea di teatro “contemporaneo”. Un percorso non solo professionale-organizzativo, ma umano e artistico che si dipana tra le pagine, facendo di questo volume un oggetto da consigliare non solo agli “aspiranti organizzatori”, ma anche a chi studia storia del teatro e ai semplici appassionati. Ci sono libri – i romanzi teatrali (penso a Bulgakov, a De Monticelli) – che sono uno spaccato più profondo e vivo di qualsiasi riflessione storico critica sul teatro stesso; capaci di restituire un ambiente, un mondo, una filosofia del teatro attraverso mille storie grandi e piccole. Così questo volume ricrea una temperie, un modo, un mondo del fare teatro che oggi più che mai ci sembra necessario recuperare, studiare attentamente.
Il teatro (e anche la critica) vive di memoria: si tratta allora di “ri-cordare”, cioè “ridare al cuore” quella centralità troppo spesso negata: e un simile libro che è la ricostruzione di memoria e di passione, riesce ampiamente in questo intento, anche attraverso le immagini di cui è corredato, e che sono una parzialissima dimostrazione dell’enorme archivio Neumann. Basterebbe vedere bene quelle immagini: non solo quelle di spettacolo (alcune già note, passate alla storia) ma quelle “altre”, direi impropriamente minori, e provare a studiarle o quanto meno a guardarle bene. Ci dice Didi-Hubermann che le immagini raccontano molto di più di quello che mostrano. Ecco dunque, ad esempio, il pubblico degli anni Settanta; le cene tra gli artisti, le locandine con la grafica ancora incisiva e con i nomi di quelli che sarebbero diventati i Maestri del teatro. Ecco immortalato, ancora, l’arrivo della compagnia Cricot di Tadeusz Kantor all’aeroporto di Fiumicino: anche dai dettagli – le gonne, le scarpe, i pantaloni, l’ambiente – si può capire, pensando agli spettacoli che Kantor firmava in quegli anni, quale forza rivoluzionaria, davvero innovativa, avesse quel teatro rispetto al proprio tempo.
Dunque un libro che si fa “romanzo” di questo percorso, che mette su carta, grazie al lucido e felice racconto di Maria Fedi, alcuni tra i momenti salienti del nuovo teatro internazionale. Sono tanti i nomi chiamati in causa, ma il romanzo si focalizza su alcuni capitoli fondamentali: il Festival di Nancy, l’esperienza del Rondò di Bacco di Firenze, la Andres Neumann International, Palermo; e poi alcuni nomi perno di questa storia, come Jack Lang, Tadeusz Kantor, Peter Brook, Pina Bausch, Vittorio Gassman, Dario Fo. Sono loro i giganti, i giganti che vivono in questa storia teatrale.
È una serrata contestualizzazione e analisi, questo percorso nella creatività di Neumann; è un atlante, una mappa, un portolano del teatro, che crea tracce, rotte, possibili collegamenti. Che abbatte muri e crea ponti. Ed è sostanzialmente questo il lavoro che ha fatto, al di là del business sacrosanto, Neumann.
Ma è interessante, del volume “L’archivio Andres Neumann”, anche il metodo di lavoro che è stato usato. Giada Petrone, assistente di Neumann, racconta di come abbia “messo ordine” tra le infinite carte e documenti: e lo racconta come fosse un vero “percorso di formazione”, un viaggio iniziatico, fatto di certosino scavo (quasi una “nottola di minerva” di hegeliana memoria) che però non è solo ricostruzione e catalogazione. Al di là del dato meramente catalografico, si avverte il piacere di un “viaggio di scoperta” che è apprendimento e agnizione, una archeologia del presente che si fa crescita, epifania emotiva e sentimentale per l’autrice (“preferisco gli archivi disordinati”, dice Petrone). Nessun documento, si dice nelle prime pagine citando Le Goff, nessuna fonte è mai oggettiva: tanto più in teatro, il documento deve essere non solo interpretato, ma letto anche alla luce della soggettività della passione di chi quei documenti ha prodotto e raccolto. Quei documenti sono le battaglie, sono il teatro di Neumann: come ha scelto cosa conservare? Con quale criterio? L’affetto, la vicinanza, l’importanza? Cosa è sopravvissuto al tempo, ai traslochi, ai viaggi?
Mi pare che vi sia, a far da filo conduttore di tutta l’opera, il gioco intellettuale e emotivo caro a Aby Warburg: quel creare un “atlante” attraverso accostamenti per affinità, non solo per burocratiche e cronologiche strutture. Ogni semplice pezzo di carta, ogni testimonianza, ogni contratto, cela una microstoria, una passione, capace di raccontare molto della grande storia: e nel lavoro certosino, dunque, estremamente curato, non si perde di vista quella passione, lo slancio, l’amore. Ora, l’archivio Neumann è stato donato al Centro Il Funaro, bellissimo spazio teatrale sopra Pistoia: e qui è disponibile presso il Centro il Funaro per la consultazione, l’analisi, la “trasmissione”. Alla fine, il lettore si fa una propria idea di chi è, di cosa abbia fatto Andres Neumann: di come, ad esempio, abbia combattuto, o blandito, o conquistato, o lottato contro il sistema (le tra le righe si evincono i guai delle amministrazioni di ieri e di oggi, il ruolo del Partito comunista, la lentezza delle burocrazie, i capricci degli artisti…).
È bello ritrovare lo slancio creativo che Neumann ha dato ai suoi progetti e ai suoi artisti, attivando una costante dialettica con i Maestri – bellissima la pagina che racconta come Kantor lo accusasse di “complotto” a proposito del progetto fiorentino che avrebbe portato al debutto di Wielopole Wielopole.
Un viaggio umano e artistico, quello di Andres, che parte dai primi esperimenti creativi e già proto-organizzativi, nel nativo Sud America, in Uruguay, dove già si segnala poco più che ventenne, per approdare presto a Nancy, al Festival Internazionale fondato e diretto da Jack Lang.
Lang – come Renato Nicolini che arriverà dopo, in questa storia – per la mia generazione è una figura mitica, un vero gigante, quello che si direbbe un “politico illuminato” (espressione che oggi suona come un ossimoro): un appassionato d’arte, di cultura e di teatro che si è fatto politico, segnando in modo indelebile, quanto e forse più di André Malraux, la politica europea. A Nancy, sul finire degli anni Sessanta, Lang con il suo festival ha inventato, letteralmente, il contemporaneo: fucina di talenti, prima legata al teatro universitario poi alla “ricerca”, scoperta continua per i nuovi linguaggi della scena internazionale. Un festival che partiva come gesto irriverente nei confronti di quell’idea di Teatro come “servizio pubblico”, voluta da Jean Vilar e come conseguenza del decentramento. Neumann vi arriva nel 1972 con una borsa di studio, come artista (anche dissidente rispetto ai regimi sudamericani), e qui si fermerà per qualche tempo. Entrato presto nello staff di Lang, Neumann sbarca in Italia, a Firenze, proprio come “Ambasciatore di Nancy”, per scoprire e segnalare quanto di meglio avvenisse da noi. Incontra dunque l’esperienza del Rondò di Bacco, ideato da Pier’Alli, e decide di farne il fulcro della sperimentazione teatrale italiana. Siamo a metà degli anni Settanta, e nello spazio fiorentino, grazie alla collaborazione con il Teatro Regionale Toscano, passa quanto di meglio si produce in Italia in fatto di nuovo teatro. È l’invenzione di una stagione “alternativa”, di “ricerca”, fatta di spettacoli nazionali e internazionali, di assoluto livello: solo per citarne alcuni Rem&Cap, Valentino Orfeo, Vasilicò, Scabia, ma anche, nel 1976, Living Theatre, Bread and Puppet, e infine Kantor, e La classe morta (nel 1978). Con il maestro polacco, poi, si penserà a un progetto che oggi diremmo di “residenza”: tra mille difficoltà si arriva, due anni dopo, al debutto di Wielopole Wielopole.
È in quel momento, dopo quel febbrile e fantastico progetto, che Andres Neumann potrà dire di sé: “Ho inventato un nuovo lavoro: Il cultural manager”.
Ma il viaggio non si ferma qui. Nel libro – e nell’archivio – c’è ancora testimonianza del Mahabarata di Brook, che doveva essere fatto a Roma ma si farà a Prato; dell’estate romana di Renato Nicolini; della creazione di Pina Bausch Palermo Palermo, realizzata nel capoluogo siciliano nel 1990. Ci sono ancora i ricordi di Vittorio Gassman portato in tournée mondiale, o del teatro politico di Dario Fo e Franca Rame, esportato – tra non pochi problemi – persino negli Stati Uniti.
Grandi capitoli di una storia che vede nella centralità del dato organizzativo una forte componente creativa e artistica: organizzare teatro non è solo risolvere problemi o trovare soldi, ma confrontarsi con l’artista scelto, preparare un territorio, capire quanto e come quel territorio possa rispondere alle sollecitazioni del teatro. E Neumann non risparmia, durante la presentazione, una battuta alla pratica dei “bandi”. Non ci crede e non li condivide: “ma vi pare – dice – che una città come Roma si sarebbe costruita con i bandi?”. Managemant, dunque, come prassi, realizzata con il nitore di chi sa che l’azione culturale serve a cambiare lo scenario non solo urbano ma umano.
(Maria Fedi: L’archivio Andres Neumann, Titivillus Editore; Eu16)