La storia del teatro è fatta anche di incontri fortuiti, casuali, di occasioni prese al volo e di altre perse. Di percorsi che si cambiano in un istante, di colpi di fortuna o di colpi di genio. Di tenace lavoro quotidiano e di costante studio. La storia che sto per raccontare mette assieme molti di questi aspetti.
Inizia tempo fa, negli anni Cinquanta, quando un giovane nato in Irpinia, a Cairano, può finalmente raggiungere il padre, emigrato in Belgio. Quel bambino di allora, crescendo, sceglie di fare teatro: prima teatro politico (era il 68) poi di approfondire lo studio dei linguaggi del corpo, con il metodo Lecoq; quindi, forse per un caso felice, di fare circo in Québec. E dal nulla crea un magico impero dei sogni e dell’incanto. Lui si chiama Franco Dragone, ha firmato le regie dei primi dieci, memorabili, incredibili spettacoli del Cirque du Soleil – pensate a Saltimbanco, Mystere, Alegria, tanto per dirne alcuni – e oggi è il leader della Franco Dragone Entertainment Group: una “multinazionale” della fantasia, della gioia, del sogno (e del grande business, perché no?), capace di rinnovare continuamente la grande tradizione del circo. Dragone ha stabilito la sua compagnia a La-Louvière, in quel Belgio dove suo padre e sua madre avevano combattuto, giorno dopo giorno, lavorando in miniera, per conquistare dignità e benessere.
Ma questa non è la storia di Franco Dragone, che pure meriterebbe ogni nostra attenzione; quanto di un giovanissimo italiano, appassionato di teatro, colto e modesto, che del maestro Dragone è diventato assistente artistico. È curiosa, infatti, la storia di Filippo Ferraresi, 28 anni, nato e cresciuto vicino Roma. Studente del Dams di Roma TorVergata, allievo del critico e docente Antonio Audino, Ferraresi dice di sé: “ero un intellettualoide del teatro!”. Appassionato di tutto ciò che era “ricerca pura”, fanatico di Romeo Castellucci (con cui poi collaborerà come assistente: l’ho incontrato la scorsa estate alla Biennale Teatro), Ferraresi scopre, per puro caso, il teatro di strada. Si ferma a guardare due saltimbanchi, a Parigi dove era per un “Dottorato di ricerca”, ed è folgorazione: tanto da mollare il concettuale, l’astratto in teatro, per approdare alla verità immediata dell’arte circense. Si mette a studiare il circo parigino dell’800: scopre una forma teatrale popolarissima e imponente, il Cirque Olympique, fatta di spettacoli con 500 comparse e 200 animali. Con spirito filologico e ardore dell’appassionato, si fionda da una biblioteca all’altra, per capire come lavorassero quei théâtre du cirque di allora. Se la “parola” era riservata alla prestigiosa Comédie Française, il corpo, il gesto virtuosistico, la fantasia erano di questi circensi, capace anche di allestire pantomime di Othello o del Macbeth di Shakespeare.
“Quello di strada – mi spiega Filippo – è uno spettacolo che incanta, che non chiede nulla allo spettatore, non chiede i soldi prima, non chiede al passante di fermarsi: solo dopo, se lo spettacolo è piaciuto, se il passante si è fermato, arrivano i soldi, buttati in un cappello”. Si laurea (alla triennale su Castellucci, al biennio su Majakovski e il Circo, con una tesi che parte dal testo Mosca addio, scritto dal poeta russo proprio per l’arte circense), ma la strada di Filippo Ferraresi non è quella della ricerca di biblioteca: approfondisce la sua passione per il circo – anche con un artista e studioso come Raffaele De Ritis, tra i massimi esperti di circo al mondo – e entra nel 2012 come stagista alla “Franco Dragone group”. È per sei mesi nel nodale “ufficio casting”: tra mangiatrici di spade, uomini forzuti, danzatori del ventre. Si tratta, infatti, di allestire un “cabaret circense” nientemeno che a Macao.
Il lavoro di Dragone è piuttosto complesso. La caratteristica è di offrire una sorta di pacchetto completo: non solo lo spettacolo, ma anche il teatro, ossia l’edificio che lo contiene e progetta per lunghi periodi. Nell’elegante e silenziosa palazzina di La-Louvière, lavorano progettisti, disegnatori, costumisti: è un fermento di attività. “Il gruppo – racconta Filippo Ferraresi – progetta assieme contenitore e contenuto: costruiamo il teatro pensando già alle caratteristiche dello spettacolo che vi sarà programmato. Ora stiamo lavorando in Cina, a Dubai, al Lido di Parigi e a Giacarta. Lavoriamo per spettacoli permanenti, che abbiano un tenitura di dieci, quindici anni. È questa la scommessa”.
E deve essersi comportato bene come stagista, al punto che Filippo viene spedito a lavorare due mesi e mezzo a Macao come assistente alla regia per la produzione di cui aveva fatto il casting. Ma anche quella esperienza deve essere andata benissimo perché, appena rientrato in Italia, Ferraresi viene richiamato per un colloquio con il Maestro Dragone: “mi ero appena seduto a tavola, a casa, a Gallicano, e mi hanno chiamato: puoi venire stasera a Parigi? Il colloquio in realtà era già una riunione di lavoro con lo scenografo premio Oscar, Tim Yip. Da quel momento ho iniziato a lavorare per la Compagnia”.
Si è trasferito a Bruxelles e ogni mattina prende un trenino per raggiungere il posto di lavoro. Come primo incarico, Ferraresi segue Dragone nell’allestimento del novembre scorso di Aida, al San Carlo di Napoli: “siamo passati dallo sciopero indetto contro la regia – racconta – a convincere il coro a fare un workshop fisico. Quasi un miracolo”.
Ma come si lavora con Dragone? “Un regista vulcanico – dice Filippo – è un portento, per la capacità di leggere le cose geometricamente, per come muove le masse, per come equilibra il palcoscenico, e per la fantasia sfrenata che trasmette a tutti noi o alle eccellenze che collaborano con lui, artisti di calibro mondiale come Sting”.
L’entusiasmo di Ferraresi è contagioso: sprizza passione, fermento, consapevolezza, competenza, doti che, però, non intaccano la sua aria da bravo “ragazzetto” con la camicia a scacchi e la figura esile. E a chiedergli se non ha rimpianti per quello che era, per quello studente “intellettualoide”, afferma sicuro: “penso che fra duemila anni, studiando teatro, l’umanità ricorderà il lavoro di Romeo Castellucci, per il suo livello di acutezza, profondità di riflessioni, realizzato in una sempre nuova forma plastica. Ogni spettacolo di Romeo, anche il più piccolo, anche un laboratorio, muove al pensiero. Ho paura che per le nuove generazioni di teatranti non sia così: ci troviamo di fronte a spettacoli formalmente perfetti, tecnicamente anche migliori di quelli di Castellucci, ma in molti casi raramente arrivano al pensiero”.
Filippo Ferraresi mi accompagna a visitare gli Studios. Un piano – con una tecnologia sfrenata, quasi fantascientifica – è dedicato ai disegnatori: qui nascono e si definiscono i personaggi, le maschere, le scenografie, i colori. Poco più avanti, si compongono i video. Al piano superiore, la sartoria sforna capi unici per eccentricità, bellezza e per innovazione tecnologica dei tessuti. Al termine del giro, chiedo a Filippo Ferraresi se si sente un “cervello in fuga”, e la risposta è netta: “no, anzi, mi darebbe anche un po’ fastidio. Sto ancora studiando. Ora è presto per fare miei spettacoli: devo ancora formarmi, imparare. Non posso andare in scena, non ho ancora finito, non ho tempo. Ma quando farò qualcosa, uno spettacolo, un mio lavoro, sarà in Italia. Per i miei genitori, per i miei amici, per quello che è il mio mondo”.