C’è uno spettacolo che continua a ronzarmi per la testa, e finche non ne scrivo non me ne libero. Si tratta di Tre atti unici, di e da Checov, prodotto da Fattore K e visto al teatro Vascello. È uno spettacolo che “gira” – come suol dirsi – da parecchio tempo, ma che ho intercettato solo all’ultima replica della presenza romana. Mi ha incuriosito, e ancora mi incuriosisce, il modo disinvolto, eppure accurato in cui Roberto Rustioni, che è regista e attore assieme a Antonio Gargiulo, Valentina Picello, Roberta Rovelli, ha affrontato Checov.
Durante il primo quadro, infatti, mi veniva in mente, come un ritornello: “pensavo fosse amore, e invece era Checov”. Sarà stato per la cadenza partenopea di Gargiulo, per la nevrosi della brava Picello, per l’impaccio e la violenza con cui esprimevano una dichiarazione di (non)amore nella classica Domanda di Matrimonio: di fatto mi tornava in mente il bel film di Troisi, paradigma, già allora, delle tante frustrazioni di coppia che ci capitano in sorte. La faccenda si inaspriva nel corso dello spettacolo, dove i personaggi si accaloravano in modo grottesco su vicende più o meno banali (i testi checoviani L’Orso e L’anniversario), come sempre profondamente umane, spingendo gli interpreti all’inverosimile i tasti di una comicità volutamente cupa, devastata, addirittura macabra.
Intervallati da brevi movimenti coreografici, i tre atti unici hanno il pregio di disegnare una umanità ai limiti della sopravvivenza sentimentale: esseri inariditi, spesso volgari, sicuramente paranoici. Un sopralerighe costantemente teso, sempre a rischio, dove momenti di apertura – mi pare di poter dire: addirittura di improvvisazione – contrappuntano il dettato checoviano, dando vita a una sottile schermaglia tra arte e vita. Se, in quel verso, un punto di non ritorno fu Vanja sulla 42esima strada di Malle, qui la componente teatrale – di una teatralità stizzita, stigmatizzata, anche affermata per negazione ovvero nello stile “quotidiano” o del verosimile, con quel gran uso di oggetti scenici – è una linea di gioco all’interno della quale i quattro attori si ingabbiano. Esasperano allora i caratteri: clowneschi, fumettistici (come nel caso della Picello); intimisti, realisti fino alla trasandatezza come in Gargiulo; oppure aggressivi, fisici e furiosi, come per Rovelli o sulfurei e maligni come per lo stesso Rustioni. La dinamica interna, la partitura tessuta da Checov, insomma, ne esce convalidata: portata certo all’oggi, pur nel rispetto del tessuto verbale, svela le meschinità, le bassezze ma anche le grandiosità possibili dell’animo umano. Vi è però, almeno per me, un dato che sfugge: è pur vero che Checov abbia una fortissima componente ironica, comica, umoristica; che i suoi ritratti – li definiva “scherzi” – seppure ferocemente indulgenti, strappino più di un sorriso. Ma spingere tutto solo a vaudeville, per quanto noir, a volte rischia di far andare troppo su di giri il motore – sotterraneo, basso continuo – degli atti unici.
Tempo fa, una amica – ottima e emergente giovane regista – mi diceva del suo proposito di affrontare Checov in un lungo progetto: proposito legittimo, tanto più vista la qualità di scrittura scenica dell’artista in questione. Quel che mi son trovato a far notare è che, a mio parere, occorre capire l’amara, dolente, costante nostalgia che scuote fino alle lacrime di certi personaggi checoviani, quella nostalgia non solo per “ciò che è stato”, ma anche e soprattutto per “ciò che sarebbe potuto essere, ma non sarà”. Magari è una cosa da vecchietti, o aspiranti tali, come chi scrive. Però, forse, anche ai giovani, vitali, ottimi interpreti di Tre atti unici manca questa “debolezza”; manca questa mestizia, canuta e incanutente; manca quel piccolo costante dolore che ogni giorno ci portiamo nascosto. Rustioni, coraggiosamente, ha puntato sulla qualità degli interpreti, ha cercato la risata cattiva; ha messo in scena in modo aggressivo dei mostri alle prese con l’amore, la morte, i soldi, spingendoli oltre il limite del nevrotico. Liberandosi, certo coscientemente, di quella nostalgia, saudade, notalgie, nostalghia tarkovskijana, chiamatela come volete. Ne ha fatto una versione “da camera”, irriverente e spigliata. Guardando anche a Cassavetes, che cita nelle articolate note di regia: però anche in Faces, ad esempio, appariva la tragedia dietro la risata. Così come, nella stralunata e decadente versione di Carlo Cecchi, dalla ricercata sciatteria scaturiva la consapevolezza della fine…
E allora io, che mi aspettavo di nuovo quel Checov là, ancora e sempre magicamente nostalgico e sottile nelle sfumature, mi sono trovato invece sul “calesse” del rimpianto Troisi.