“Who wants to be the President of the Garden of Eden?”
Allen Ginbserg, Grant Park: August 28, 1968
Chi confonde ancora la cultura con il turismo culturale? Forse chi confonde la poesia con la rima e il desiderio con il consenso. La cultura non si tocca, non si maneggia, non si palpeggia e non si rende oggetto, e’ qualcosa che pervade la societa’, o dovrebbe farlo, dovrebbe essere lo stimolo a creare una continua rivoluzione, una perenne ristrutturazione dei centri storici, delle biblioteche, dove il nuovo prenda posto sugli scaffali, sui muri, con la stessa importanza e rilevanza del vecchio, del remoto, dell’obsoleto, del lontano nel tempo e, spesso nella mente collettiva della societa’.
L’Italia e’ sempre di piu’ a rischio di una sindrome da musealizzazione, di preservazione neanche troppo efficiente, di questa specie di gipsoteca, fragile e serenamente sconosciuta e mal archiviata, che ci hanno lasciato generazioni e generazioni di artisti, signorotti, regnanti, scultori, imbrattatele, intrecciatori di arazzi e di paglia. Ma, la preservazione, la conservazione, sono cultura o sono cataloghizzazione dell’esistente? E dove e’ la cultura italiana oggi, sotto il cielo che ci incatena stupiti, non tanto per la bellezza che vediamo, ma per il fatto che qualcosa sia rimasto integro, nella scarsa importanza di una ridefinizione di cosa sia la cultura italiana oggi, nel 2014.
E’ la forza derivativa di artisti da strada americana, la ricerca di un Banksy nostrale? E’ nel formalismo di pittori pop, di scrittori noir goth, o, forse, la cultura e’ veramente altro, talmente altro che, come la reputazione, non avrebbe bisogno neanche di un ministero, ma di una coscienza diffusa, laterale ad ogni attivita’ che si svolge nel paese, ogni atto volontario di creazione, di miglioramento non tanto del decoro urbano, ma della autocoscienza di una societa’. Non si tratta di far dipingere murales alle scolaresche, ma di invogliare una nuova narrazione del paese, delle sue contraddizioni e delle sue sconfitte e vittorie particolari.
La cultura e’ una cosa, la conservazione di pietre e cocci, di mosaici, di colonne doriche, e’ una forma di voyeurismo tecnico, di ricostruzione metodologica ma senza spirito di meraviglie passate, che giustificano l’abbandono del presente, di quel presente che invece dovremmo difendere, di quell’arte che nasce dalle strade, nei film e documentari che cercano di raccontare il paese, negli emuli di Nico D’Alessandria, nei guitti che solcano le assi di qualche teatro rionale, nella musica e nella scrittura che nascono dove nessuno se lo aspetta, ma che narrano, che evidenziano la cultura del popolo, delle persone, della societa’ che passa appena appena tangente alle grandi esibizioni ai Giardini del Quirinale.
La cultura e’ questa narrativa popolare, questo racconto che nasce non nelle mura che si sgretolano di Pompei, ma che dovrebbe essere compresa, nei casermoni e negli alveari periferici della Napoli che si estende appena fuori dal parco archeologico, la musica di strada, la ragazza blogger che non racconta ancora di una rivoluzione dei gelsomini, ma che ha dentro la stessa voglia e rabbia di cambiare il paese, le sue condizioni, di ogni sua coetanea tunisina od ucraina. E’ quella l’Italia su cui investire, su cui spendere soldi, in educazione, servizi, assistenza, sicurezza. Sono le migliaia e migliaia di persone che ogni giorno viaggiano in servizi inadeguati, che non hanno una speranza che non sia dentro una valigia, i beni culturali da salvaguardare.
La cultura di un popolo e’ la sua voglia di riprendersi il potere, di riprendersi in mano le decisioni importanti, non lasciando ad altri, per troppo tempo, la delega da cui nascono le norme, le leggi e le regole che poi diventano macigni, slavine, o eiettori, come quelli di un jet supersonico, per intere generazioni e brandelli di una societa’. Di una cultura.
Forse Pompei dovrebbe essere ricoperta di terra, terra sana e pulita, dato che sicuramente i Romani non nascondevano fustoni di veleni sotto terra, e potremmo riconvertirla alla coltivazione di pomodori. Ammettiamolo, ne abbiamo fatto a meno per quasi 1000 anni delle macerie di un disastro, possiamo farne a meno per altri 2000 anni. Se tutto questo permettera’ maggior attenzione alla cultura viva delle persone, di quei ragazzi che guardano i turisti di ogni razza che confondono Michelangelo con le Tartarughe Ninja e che sono anche essi schiavi, sudditi di un’idea balzana che accomuna cultura e turismo tutto compreso.
Con la cultura non si dovrebbe mangiare, non la si dovrebbe sfruttare, ma dovrebbe essere una specie di sostanza che si adagi, come le polveri fini delle scie chimiche, su ogni intenzione, su ogni forma di espressione della fantasia e della concretezza, della suprema arte di darsi da fare, di salvarsi da soli, nonostante il gran varieta’ degli interessi personali e particolari, delle sopraffazioni di ogni dimensione e tipo, ed e’ qui, ammettiamolo, si nasconde il vero petrolio del paese. E non nelle carovane di turisti assetati di emozioni e di vino scadente.
Soundtrack
Peppe Voltarelli – Turismo in quantita’
dEUS – Popular Culture