Giovine Europa nowIl pivot USA verso l’Asia/Pacifico…chimera!

Verso la fine del 2011, gli USA hanno annunciato la dottrina del ‘pivot to Asia (orientale)’. Dopo poco più di due anni, nell’aprile 2014, Barack Obama visiterà la regione e quattro paesi in partic...

Verso la fine del 2011, gli USA hanno annunciato la dottrina del ‘pivot to Asia (orientale)’. Dopo poco più di due anni, nell’aprile 2014, Barack Obama visiterà la regione e quattro paesi in particolare (Malesia, Filippine, Giappone e Corea del sud). La sensazione, tuttavia, è che l’idea del ‘pivot’ abbia perso slancio. Esiste ancora una grand strategy USA?  Se c’e, è assai difficile da vedere… e gli USA sembrano in ritardo su molte questioni. 

Si prenda l’ASEAN, dove avrà inizio la visita di Obama. Qui Washington ha amici, vecchi (Filippine, Indonesia) e nuovi (Myanmar, visitata dal Presidente nel 2012). Ma che cosa ha fatto finora Obama per sostenerli? Le Filippine sono in attesa di una risposta forte alle loro preoccupazioni per l’atteggiamento aggressivo della Cina nelle dispute del Mar cinese meridionale; la Malesia è interessata a commercio e investimenti; il Vietnam tenta di bilanciare tra influenza americana, cinese e russa. Attenzione, perche’ i paesi dell’Asia sud orientale ospitano  importanti e ricche comunità cinesi che, ad esempio, producono circa il 60-70% del Pil malesiano e ‘dominano’ l’economia dell’Indonesia, nonché quella di Singapore. Inoltre gli investimenti dalla Cina continentale sono in pieno boom, specialmente in Vietnam dal 2013; Pechino è interessata alla creazione di una banca dell’ASEAN, in cui sarebbe il maggiore azionista. Per quanto riguarda i mercati dei capitali, la fallita fusione (2011) tra le borse di Sydney e Singapore suggerisce che una Superborsa asiatica senza la Cina non e’ fattibile. Gli interessi nazionali sembrano ostacolare la possibilita’ di mettere in piedi una sorta di Wall Street asiatica, che catalizzerebbe gli investimenti per l’intera regione.

Anche il Giappone ha recentemente promosso il proprio interesse nazionale favorendo la fusione tra le borse di Tokyo e Osaka (gennaio 2013) nel Japan Exchange Group. Il problema qui è che il modo in cui il Giappone persegue i propri interessi sembra avere superato molti limiti. Gli USA potrebbero beneficiare di un forte alleato regionale, ma il signor Abe pare convinto di voler andare ben oltre. La sua visita al Santuario di Yasukini (26 dicembre 2013), la prima di un premier giapponese dal tempo della seconda guerra mondiale, ha turbato la Cina, la Corea del sud e, in misura minore, gli Stati Uniti. Ancora più allarmante, per Washington, è il piano di Abe di aumentare le spese militari, piano che è stato adottato nel dicembre scorso. Il Giappone sta affermando un ruolo molto più autonomo e va oltre le possibilità USA di tenere a bada i suoi spiriti bellicosi. Al tempo stesso, la Corea del sud è infastidita per l’apparente mollezza di Washington nei confronti di Tokyo e ovviamente non può accettare la provocatoria visita di Abe al santuario. La visita di Obama ad entrambi i paesi porrà fine alle loro dispute e riaffermera’ il potere americano? Non sembra un compito facile. Oltre ad una rivalità storica, un sacco di altri problemi sono in gioco.

Anche se i cittadini sudcoreani mantengono un’opinione positiva circa l’influenza degli Stati Uniti (il 58% di loro la penserebbe in questo modo, secondo un sondaggio BBC 2013), i rapporti tra Seoul e Washington potrebbero anche peggiorare. Cercare di accontentare sia il  Giappone che la Corea del sud diventerà sempre più difficile, anche in considerazione dei problemi dell’economia USA. Non tutti sembrano poi disposti a trovare una soluzione, che sarebbe invero necessaria, alla questione nordcoreana. Dopo tutto, una Corea unita potrebbe diventare un forte concorrente del Giappone stesso; mentre la dittatura di Kim Jong-un potrebbe ancora portare vantaggi a breve termine a molti. In un certo senso, essa puo’ ancora indirettamente ‘beneficiare’ i complessi militari-industriali in Cina e negli USA e rappresentare un bersaglio facile e utile per quest’ultimo e i mezzi di comunicazione occidentali. Inoltre, la Corea del sud continua a perseguire un accordo di libero scambio con la Cina, che è ormai il suo principale partner commerciale. Come si può vedere, districare una complessa rete di interessi non è semplice.

Qui entra in gioco la Cina. Pechino è il più grande creditore straniero degli USA, ma nel 2013 ha rallentato la sua esposizione al debito americano. La Cina sta anche comprando oro e pianifica un ruolo chiave per lo Yuan, che è già commercializzato in banche cinesi (ICBC, Bank of China e China Construction Bank, tra le altre) a Londra e Lussemburgo. Il rapporto tra il dollaro e lo Yuan probabilmente definirà il futuro delle relazioni tra i due grandi paesi. Considerando che l’Asia/Pacifico è la massima regione industriale e commerciale del mondo, tutti i paesi risentirebbero di uno scontro USA-Cina. Una soluzione che consenta una condivisione del potere è indispensabile, ma Washington deve riconoscere che un accordo di libero scambio (come il Trans Pacific Partnership, TPP) difficilmente può escludere la Cina, e una  Superborsa dell’Asia-Pacifico allo stesso modo non puo’ farne a meno.

I negoziati per il TPP sono in corso, ma, nonostante la promessa di Obama di accelerarne la conclusione, non molto è stato fatto. Il ritmo dei colloqui è lento, e gli Stati Uniti non sono riusciti a raggiungere un accordo neanche con il Giappone, a causa di controversie su misure protezionistiche su alcuni prodotti agricoli. Il Giappone potrebbe concludere prima un accordo di libero scambio con l’Australia, e altri paesi dell’Asia-Pacifico (tra cui la Malesia) sono rimasti piuttosto scettici. Ha senso organizzare una zona di libero scambio che esclude la Cina? Che significato può avere, considerando che la Cina è la massima potenza commerciale mondiale? Come possono gli USA gestire un numero di alleati problematici i cui interessi sono spesso in disaccordo con loro e tra di loro? Forse l’America pensa che può permettersi un certo ‘ritardo’, considerando che l’economia si sta riprendendo e nell’ ultimo trimestre 2013 e’ cresciuta di un notevole 3,2%. Ma possono gli USA essere soddisfatti di una limitata ripresa economica e una certa stabilizzazione interna? Il pivot di Obama funzionerà se gli USA si renderanno davvero conto che l’Asia-Pacifico è il principale scenario economico e politico del XXI secolo. In caso contrario, qualsiasi dichiarazione o visita alla regione non porteranno molto beneficio – ne’ agli Stati Uniti ne’ all’economia globale.

Una versione in inglese di questo articolo e’ apparsa su open Democracy at http://www.opendemocracy.net/ernesto-gallo-giovanni-biava/americas-chime…

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