C’è un artista appartato, in perenne crisi con se stesso, che persegue una costante messa in discussione delle proprie certezze attraverso le tappe successive di una ricerca incessante e pluriennale.
Ha il tocco garbato della timidezza e la sfrontatezza di un dubbio sistematico che sa farsi esibizione – spettacolare ma anche surreale – del proprio mondo e delle proprie insicurezze. Stiamo parlando di Mariano Dammacco, regista, attore e autore (anche se lui a fatica si identifica in queste tre posizioni) che ha mosso i primi passi teatrali in Puglia, con piccoli spettacoli che ottennero consensi e riconoscimenti, titoli che forse evocano ancora qualcosa a chi si occupava di teatro negli anni Novanta, come Sonia la Rossa o Amleto e la Statale 16.
Poi dalla regione d’origine, Dammacco si è trasferito al “nord”: prima Bergamo, ora Modena. Ogni volta una crisi esistenziale e artistica ad accompagnarlo, ogni volta un radicale corpo a corpo con i risultati ottenuti sino a quel momento.
Di tutto questo si è parlato – ampliando temi e orizzonti – in una due giorni di residenza artistica presso L’arboreto, il “teatro-dimora” di Mondaino, la bellissima struttura diretta con intelligenza e sensibile cura da Fabio Biondi.
Eravamo là, artisti, critici, operatori, chiamati a raccolta dalla Piccola Compagnia Dammacco, proprio per un confronto tra “maestri e allievi”, in un progetto titolato, in modo un po’ altisonante “Quale teatro per il ventunesimo secolo?”, cui faceva da contraltare, non senza ironia, il sottotitolo: “Di nuovo, Maestri e margherite?”.
Ecco, allora, gli interventi di Marco Martinelli e Renata Molinari, che per Dammacco sono indubbiamente “maestri”; ecco la partecipazione di altre compagnie, coetanee e sodali, come Punta Corsara, Big Action Money e Piccola Compagnia della Magnolia.
Così, tra frammenti di lavori ancora in divenire, confronti e confessioni, si è avuto modo di approfondire e analizzare il percorso creativo di Mariano Dammacco e del suo gruppo.
Paradossalmente dunque, nel caso di Dammacco, non si può prescindere tra biografia e produzione teatrale, tra vita e scena. Si avverte, infatti, tutto il suo essere presente in modo contraddittorio a se stesso, il “disagio”, in quanto attore e autore dei suoi testi. Lui rivendica, con determinazione, la fase drammaturgica, la scrittura come necessità: e di fatto, i suoi testi hanno una cifra riconoscibile, forte, incisiva. Mentre vorrebbe volentieri “declinare” all’essere interprete, attore di sé.
Se ne è avuta dimostrazione anche a Mondaino, con lo spettacolo che ha chiuso la due giorni di lavori: L’ultima notte di Antonio, testo vincitore del premio di drammaturgia Il Centro del Discorso 2010.
Una scrittura che è flusso verbale poetico, addirittura lirico o onirico, che si alterna a momenti di feroce semplicità, d’immediata adesione alla realtà o di invettiva cruda. Nell’impianto registico, Dammacco mantiene fede all’attenzione per l’attore, per il corpo e la cifra dell’interprete. Corpi che si spezzettano in una innaturalezza quasi grottesca: se Mariano, dal canto suo, non cela né dissimula il suo essere dunque “a disagio”, ed anzi ne fa – forse involontariamente – una cifra, con lui in scena vi è la brava Serena Balivo, artefice di un percorso millimetrico di adesione a un personaggio-maschera, marionetta drammatica che sprigiona, però, tenerezza.
L’ultima notte di Antonio è un canto al “cocainomane”, tragica e attualissima figura del contemporaneo, è un affresco di una vita falcidiata dalla droga, che non ha, né vuole avere, connotati di denuncia o di cronaca, ma solo di umana empatia. Un quadro, quasi un racconto breve, in cui l’autore, con poche, semplici, aspre, pennellate, disegna un mondo di marginalità e amore di un rapporto di coppia – una coppia qualsiasi, come tante – segnata in modo indelebile dalla fragilità e dalla paura della vita.
Fa bene, dunque, Dammacco a riaffermare con forza il suo essere drammaturgo e autore, fa bene a insistere nella sua ostinata e appartata ricerca. I frutti di questo lungo viaggio, esistenziale e artistico, hanno il gusto amaro di una consapevolezza acquisita senza scappatoie o facili soluzioni.