Ci si meraviglia forse dell’uso strumentale e profanamente perverso di una “poesia” tratta da uno dei libri canonici dell’umanesimo italiano, volto a comandare la memoria di uno dei maggiori crimini dell’umanità, perpetrato da mani battezzate, per impedirne la ripetizione. Ci si meraviglia forse la circostanza, solo apparentemente casuale, che la sua versione stravolta appaia nel giorno della vigilia della pasqua ebraica, che cade quest’anno dal 15 al 22 nisan, (aprile). Ci si meraviglia del fatto che chi lo ha scritto sia forse consapevole della portata traumatica e memoriale di questo testo, ma non fino al punto di farne un uso strumentale per ritornare sotto i riflettori. Ma forse dovrebbe parlarsi dell’uso che in questo paese si fa della storia, dell’uso non solo giornalistico ma anche politico che si fa della storia. In un contesto montante di sostanziale ignoranza, per reiterare il vero oblio.
Ma chi conosce lo stato dei fatti non si meraviglia, sa, infatti, di quanto sia presente, dissimulata ma maggioritaria, una pulsione sostanzialmente antisemita diffusa nelle corde dell’opinione pubblica italiana, e sempre pronta ad avatarizzarsi dietro sembianze apparentemente innocue. Perché non si può usare il testo di Primo Levi? Perché esso non è soltanto un testo letterario, è di più. È un testo sacro, è la riscrittura, nel tempo posteriore alla Shoah, del comandamento fondante della religione ebraica, quello di ricordarsi di Dio, lo Shemà Israel. La prescrizione del ricordo (zakhor), caposaldo dell’identità nella resistenza- per-la-vita di un popolo, testimone universale della scommessa dell’Eterno per tutta l’umanità.