Dall’8 Maggio, Expo è sotto indagine giudiziaria e dunque è tutta, teoricamente, compromessa. Quindi, sempre teoricamente, così come le aziende e gli appalti, anche la gestione artistica culturale è compromessa.
Solo che l’arte ha un regime economico a parte: essendo il suo valore fluttuante come la Borsa, l’arte non può essere regolata dalla burocrazia. Anche perché una mostra vale di più se la fa Celant che se la fa Paparoni, il critico che ha accreditato la polemica su Artribune (qui).
Ma questo aspetto non paritario dell’arte a molti non va giù e paradossalmente, fra questi, tanti sono addetti ai lavori come Paparoni e Artribune.
Paparoni è un critico d’arte siciliano che in un’altra epoca ha cercato di competere con Flash Art fondando la rivista Tema Celeste, ma non ha capeggiato nessun movimento artistico.
Oggi Paparoni risulta fra quelli sollecitati come Daverio da Expo2015 per la consacrazione di alcune figure storiche come Schwartz recentemente. In previsione del 2015, Expo sta collaborando con lo Stato all’accelerazione di questo dovuto (nonché utile) processo istituzionale.
Guardandolo da questa prospettiva, il “caso Celant” – com’è stato chiamato – nasconde visibilmente certe gelosie di fondo nel mondo dell’arte: forse qualcuno vorrebbe rimescolare le carte e avere il potere che Celant si è storicamente guadagnato vincendo una battaglia con l’Arte Povera.
Così mentre la stampa italiana s’indigna demagogicamente sul compenso di Celant, è il momento di mettere i puntini sulle i del sistema dell’arte italiano.
Abbiamo spiegato come il regime speciale dell’arte immunizza curatori e manager culturali e fa sì che questi sono, a differenza degli altri manager di Expo, non perseguibili. Proprio perché nell’arte vale ciò che in politica e nella pubblica amministrazione è illecito. Nell’arte l’influenza (storica) è un valore e fa tutta la differenza.
Contattati dalla redazione del Fatto Quotidiano dopo l’accusa di Artribune, i responsabili di Expo giustificano senza grandi problemi il maxi compenso di Celant. In barba all’indignazione, Expo ha quindi confessato molto tranquillamente di aver chiamato Celant per il potere che ha nel mondo dell’arte: con Celant può assicurarsi prestiti importanti dalle fondazioni.
E fin qui tutto regolare: l’Expo riconosce in Celant la persona più influente dell’arte italiana e ne chiede i favori.
Certo è come accettare che nell’arte comandano le lobby, ma alla base questi meccanismi si sono creati partendo da meriti inderogabili: comanda il più forte. E il più forte è chi vince la guerra, la guerra del progresso, dell’innovazione. In termini artistici, dell’avanguardia.
Bisogna perciò diffidare totalmente della tendenza a voler burocratizzare il sistema dell’arte perché è un pretesto per scavalcare la competizione.
E invece Celant come Achille Bonito Oliva hanno vinto la battaglia degli anni ‘60-’70: per aver, in passato, internazionalizzato l’arte italiana con l’Arte Povera e la Transavanguardia.
Per mettere Expo alle strette dunque, le personalità culturali dovrebbero invece chiedere ad Expo di sbilanciarsi sui contenuti. E non lasciare che la questione dell’arte oggi si riduca ad una triviale rivalità tra addetti ai lavori, facendo da megafono a Sgarbi o Paparoni.
Comunque, stando ai fatti, Expo ha solo due scelte: dichiarare che l’Arte Povera dopo 50 anni regna tuttora insuperata, oppure dimostrare che Celant ha in mano la nuova arte italiana.