Finalmente ho visto Le voci di dentro, di De Filippo, con la regia e l’interpretazione di Toni Servillo, in scena con il fratello Peppe.
Uno spettacolo-evento, che ha girato mezzo mondo in una tournée lunghissima, tant’è che sono andato a vederlo come se lo avessi già visto: mi sembrava di sapere già tutto di quel che avrei trovato.
Però, mentre la compagnia si prendeva gli applausi scroscianti di un teatro Goldoni di Venezia straesaurito, con il pubblico festante pure se assiepato nel loggione, mi venivano in mente alcune considerazioni. Le voci di dentro è già stato strarecensito e strapremiato: non serve, a questo punto, analizzarlo e valutarlo nuovamente.
Così, tra il battimani di abbonati e avventori, pensavo a quanta “strada” – nel senso letterale e figurato – abbia fatto Servillo. Sono passate ere geologiche dalle esperienze iniziali del Teatro Studio di Caserta (era il 1977); sono passati decenni da Teatri Uniti o dall’incontro con Leo De Berardinis: quella vita di “cantine”, di orgogliosa sperimentazione e ricerca; quella faticosa, severa, rigorosa “gavetta” che Servillo (con l’indimenticato Antonio Neiwiller, con Mario Martone, Angelo Curti, Andrea Renzi, e tutte e tutti gli splendidi protagonisti di allora) ha fatto, risplende oggi in questo meritatissimo successo.
Toni Servillo si è reinventato “capocomico”, si dice: ma anche in questo caso il discorso non è semplice. Mi sembra di poter affermare che l’attore e regista – almeno dalla fine degli anni Novanta – si sia fatto carico, diventandone un riferimento, di una “nuova” tendenza artistica in atto.
Mi spiego.
Nei suoi allestimenti di De Filippo, Goldoni, Marivaux, Molière, Servillo ha scelto una chiave interpretativa sempre diretta, immediata, volutamente semplificata. Ha scarnificato sapientemente molto della complessità dei testi scelti, ha ridotto nella prospettiva di rendere “smaltata” ovvero “fruibile” l’opera stessa. Compattando gruppi di lavoro sempre di altissimo livello (ne Le voci di dentro, da citare almeno, ad esempio, Chiara Baffi, Gigio Morra, il fratello Peppe, che conferma le sue doti di straordinario e surreale performer), Servillo porge al pubblico una “confezione” elegantissima, una macchina teatrale impeccabile. Insomma, si è dato l’onere – e forse l’onore – di riconquistare il pubblico del teatro, di riportarlo a teatro, di “comunicare” (la parola è brutta, lo so) direttamente e vivacemente. In qualche modo di reinventare una teatralità nuova e antichissima, cui troppo spesso la “ricerca” – da cui lui stesso proviene – aveva abdicato, relegando il pubblico al ruolo scomodo di invadente voyeur.
Questo, forse, è il “rischio”, la scommessa di Servillo: riagguantare ogni singolo spettatore. Il suo non è un rischio interpretativo sul testo, da lettura critica o da drammaturgia scenica innovativa e visionaria; quel che gli preme è, appunto, arrivare: comunicare il teatro.
E per questo cerca volentieri i toni comici, la risata, anche l’ammiccamento: dei testi prende il plot, lo riduce all’essenziale, lo spinge a velocità notevoli, a ritmi sostenuti. Gioca, gigioneggia, spadroneggia, controlla, regala, metateatralizza sornione, sapendo di piacere.
Spolvera certo quei classici dalle teche museali in cui troppo spesso si spegnevano, e li fagocita mettendoli in vetrine nuove e brillanti, suscitando anche ricordi, nostalgie, consolazione negli spettatori: un po’ – mi si consenta il paragone blasfemo – come la Fiat che rifà la Cinquecento. Geniale, dunque, perché coglie pienamente il suo obiettivo.
In questa prospettiva, è interessante notare come oggi ormai il teatro italiano “ufficiale” sia quello “figlio della ricerca”, ovvero prodotto da una (auto)formazione spesso alternativa al mainstream storico: le nostre eccellenze artistiche sono quelle che hanno vissuto a lungo di marginalità, di codici e stilemi alternativi. Nel momento in cui hanno abbracciato la “tradizione”, hanno saputo dar vita a esiti scenici di grande freschezza.
Ecco l’altra e ultima considerazione che mi veniva in mente, suggerita anche da una chiacchierata con un amico regista: alla centomillesima replica di Le voci di dentro, in una qualunque pomeridiana veneziana, lo spettacolo era ancora fresco e brillante come fosse il debutto. Grande merito per questo “capocomico” e per la compagnia tutta. Lo spettacolo c’è, è bello, funziona benissimo. Potrebbe essere diverso? Potrebbe essere altro?
Lo so: c’è chi critica, chi storce il naso, chi dice che è superficiale, chi polemizza (anche, noiosamente, sull’Oscar). Francamente, alla fine, non importa.