Forse non è ancora molto conosciuto, in Italia. Ma basta dire che si tratta del maestro di un attore del calibro di Javier Bardem (chi non lo ricorda omicida da Oscar per i fratelli Coen?) per capire che Juan Carlos Corazza è un’autorità indiscussa nella formazione e nella preparazione per gli attori di teatro, cinema e tv.
Corazza arriverà a Roma, per un lungo workshop internazionale, dedicato al tema “Intuizione e consapevolezza nel processo creativo dell’Attore”: un approccio senza dubbio affascinante e profondo, il suo, frutto di una lunga pratica scenica e formativa che il regista e pedagogo ha sviluppato nell’arco di trenta anni. Fondatore e direttore di un suo Estudio a Madrid, e della compagnia Teatro de la Reunion, Corazza conduce seminari e workshop in diversi paesi del mondo. A Roma, dal 17 al 25 luglio, presso la Fonderia delle Arti, Corazza apre il suo seminario a 16 partecipanti e 10 uditori. Ci sarà anche un “prologo”, in forma di masterclass aperta al pubblico, il 14 luglio, al Teatro Valle Occupato. In attesa di incontrarlo in Italia, abbiamo rivolto al Maestro alcune domande, cui ha risposto con grande disponibilità e simpatia.
Se guardiamo alla scena internazionale, notiamo che non più di “teatro” si deve parlare, ma di “teatri”, vista la varietà e complessità dei linguaggi ormai usati sui palcoscenici. Anche il suo Training è aperto ai codici del cinema e della televisione. Vorrei chiederle, dunque, di partire da una definizione del termine “attore”: cosa significa per lei? Chi è l’attore oggi?
L’attore è una persona che sviluppa alcune speciali capacità per svuotarsi da se stesso e trasformarsi in altro. Qualcuno capace di comprendere, immaginare ed esprimere un’altra vita con tutto il suo essere e a suo modo, in forma artistica. L’attore ha sempre avuto un ruolo sociale importante: quello di offrire il suo talento per far sì che i personaggi e le storie arrivassero al pubblico e affinché questo ne potesse beneficiare. Nelle origini del teatro risiede il desiderio dell’uomo di dar voce e forma alle proprie storie, alle emozioni, ai pensieri e ai misteri. La necessità di esprimersi e di riflettere sull’uomo, sul sociale e anche sul divino. Ma lo spettatore odierno è cambiato, ha altre necessità o forse ascolta meno le proprie necessità più profonde, vittima com’è di una società che tende alla superficialità, al consumismo, alla distrazione. Una società che produce e consuma molte “risonanze culturali” che sostituiscono la vera cultura. Anche la recitazione è molto cambiata. Non si recita più come settanta o cento anni fa, sebbene alcuni continuino a farlo. Anche l’atteggiamento dell’attore è cambiato: molti si dedicano e si impegnano più nella carriera che nella ricerca artistica, coltivano più l’ambizione professionale che il lavoro e il senso della propria arte, spesso a causa delle circostanze, a volte per scelta oppure perché, semplicemente, dormono. Quando un buon attore ha coscienza dell’opportunità che ha di apportare beneficio alla società, in un piccolo o grande teatro, in un parco o di fronte a una videocamera, può diventare una versione, seppur modesta, del grande sciamano di altri tempi e culture. Nel teatro, il pubblico si apre all’incontro con alcuni attori che a distanza di pochi metri danno vita a personaggi e storie che fanno sognare, sentire e pensare. L’attore può creare nel pubblico uno stato di coscienza maggiore, ispirando esperienze, emozioni e comprensioni profonde. Un vero attore, più che avere privilegi, ha molto lavoro da fare e molte responsabilità. E quando impara a gioire di questo è molto felice!
Lei ha già incontrato, e formato, alcuni attori e alcune attrici italiane: quali sono le caratteristiche dell’attore italiano? C’è qualcosa che ancora lo contraddistingue rispetto ai colleghi europei?
Credo che gli attori italiani abbiano una grande umanità, un talento speciale per il tragicomico. Penso che maestri come Goldoni, Pirandello, De Filippo e altri grandi della scena italiana abbiano influito anche nella recitazione. C’è un senso del tragico e dello humor molto specifico degli attori italiani. Un immaginario poetico ed emotivo con un tipo di espressività che mi fa pensare al mondo di Chécov. Ma anche un tipo di sensibilità che può cadere nel sentimentalismo e nella superficialità. Un senso di piacere di recitare che può trasformarsi in “sovrarecitazione”, caricatura, pagliacciata da quattro soldi o volgarità.
Anche la formazione, ovvero la pedagogia attorale, sembra “esplosa”, declinata in mille metodi diversi. Quali sono, se è possibile riassumere, i punti salienti del suo metodo formativo? In cosa consiste il suo Training? Come lavora con gli allievi?
Lavoro individualmente con ogni attore o attrice e in ogni workshop propongo argomenti diversi, secondo la mia visione e il mio criterio artistico. Nel mio lavoro è fondamentale sviluppare la capacità di vedere e vedersi: l’attore deve vedere se stesso, il personaggio, la storia e l’autore distinguendo il lato soggettivo e quello obiettivo. Siamo tutti così diversi come le nostre impronte digitali e quello che funziona per una persona può non funzionare per un’altra. Mi piace scoprire quello che ogni attore ha da offrire, il suo dono speciale, la sua peculiarità. Mi appassiona comprendere il mondo dell’opera e dei personaggi, il testo e il suo autore e in come ogni in attore emergono cose diverse. Come per tutti i miei collaboratori e colleghi, per me è molto importante lavorare sul corpo, sulla mente e sull’emozione dell’attore. Mi interessa allenare la libertà e l’ordine nella recitazione, il dionisiaco, il piacevole e l’irrazionale combinato con l’apollineo, la precisione e la forma nell’arte. Cerco un ritmo preciso nell’attore. Un’espressività della parola-copro-spazio che emerge affinando la connessione tra intuizione e coscienza.
Qual è, oggi, la responsabilità di un Maestro di teatro?
Una responsabilità secondo me è quella di aprire nuove porte creative per l’immaginazione, il cuore e la mente dell’attore. Coltivare il proprio spirito di ricerca, discernimento, criterio e impegno con l’arte e con l’umanità: ricordare e praticare insieme la dimensione singolare, artigianale e misteriosa della creazione. Vivo l’insegnamento come una relazione di mutuo apprendimento, che mi ricorda le antiche trasmissioni di altri offici, come quelli del pittore, del contadino, o quello del sarto con i suoi apprendisti. Una relazione nella quale trasmettere esperienze, tecniche o segreti è importante tanto per crescere quanto per la corrente umana che si stabilisce tra maestro e discepolo. Una relazione nella quale non possono mancare l’amore e il rispetto reciproci. Come maestro m’interessa aiutare ogni attore a incontrare il proprio cammino per avanzare, per crescere ed essere se stesso, con la sua propria personalità artistica. L’insegnamento e la regia sono per me opportunità per comprendere meglio me stesso e l’essere umano in genere: il mio modo di apportare qualcosa al mondo in cui vivo. Per me il teatro stesso è un’opportunità di tornare a essere più compassionevoli con noi stessi e con gli altri.
Tra i suoi allievi più noti, anche il premio Oscar Javier Bardem: quando ha capito che il “ragazzo” aveva talento?
Quando ha mostrato coraggio, passione e fiducia nel lavoro più artigianale dell’attore. È successo nel suo primo anno di formazione nel mio Estudio di Madrid, ventiquattro anni fa. Javier è stato subito disponibile a vedere e investigare tutto quello che emergeva dal lavoro, il facile e il difficile. La sua sincerità e il suo impegno hanno fatto sì che si manifestassero la sua forza, la sua vulnerabilità e la grazia dalla quale è toccato. La grazia del suo talento e quella di volerlo coltivare e curare e non solo vivere di esso.
Durante il suo soggiorno romano, lei terrà una Masterclass presso il Teatro Valle Occupato: una realtà, frutto di occupazione da parte di lavoratori dello spettacolo, ancora molto discussa. Cosa pensa di questa esperienza?
Non conosco i dettagli de questo processo e della discussione in corso. Credo che ogni movimento vivo, audace e creativo possa aiutare il teatro. Spero che questo movimento abbia uno spirito di unione, una volontà di riunire la gente di teatro e questa con il pubblico. Penso che un popolo che non si prende cura della propria cultura e del senso di questa, dimentichi la sua anima. Qualcosa che forse può applicarsi al difficile compito di gestire un teatro. C’è una semplice frase di Federico García Lorca che dice: “Il teatro è la scuola del popolo”. Credo che ogni scuola abbia bisogno di rinnovarsi per mantenere uno spirito vivo e di comprendere quale è la propria missione in ogni epoca e generazione.
(Per informazioni e iscrizioni: [email protected], oppure +39 320 2217425).