Quante cose ci sarebbero da dire sull’Inda e sul Teatro greco di Siracusa?
Molte, a cominciare dal fatto che il prestigioso Istituto Nazionale del Dramma Antico, gloria e vanto degli studi classici, festeggia il suo centenario sotto commissariamento. Dopo la lunga (forse troppo) gestione Balestra, infatti, c’è voluto un anno per tornare ad avere un Cda regolarmente, e da pochissimo, nominato. Si spera che quanto prima si arrivi alla nomina di un direttore che possa ridare identità e prestigio, anche internazionale, all’ente siracusano. Di fatto, in tale “vacatio” artistica, l’Inda è arrivata comunque, orgogliosamente, alla stagione 2014, con un programma che mette al centro la trilogia di Oreste – il cui primo capitolo fu oggetto di allestimento proprio un secolo fa – e Le Vespe di Aristofane.
Se questa commedia è stata affidata alla regia di Mauro Avogadro, i tre momenti del capolavoro di Eschilo sono stati assegnati alla regia di Luca De Fusco (per l’Agamennone) e Daniele Salvo (per Coefore e Eumenidi). Eschilo, poi, viene messo in scena con la nuova, robustissima, traduzione firmata da Monica Centanni, che coglie l’obiettivo di rispolverare una lingua antica e vivissima, rendendola comunicativa, immediata, vibrante, senza però nulla togliere al lirismo e alla poesia eschilea.
Per quel che ci riguarda, abbiamo visto l’imponente allestimento di Daniele Salvo: Coefore e Eumenidi in un colpo solo.
Sono arrivato al Teatro Greco assieme a un drappello di giovani e giovanissimi catanesi, guidati dal bravo regista e attore Orazio Condorelli, che gravitano attorno all’Associazione Gapa, da venti anni baluardo di resistenza culturale nel difficile quartiere di San Cristoforo in pieno centro di Catania. Per molti di loro era non solo la prima volta a Siracusa, ma anche la prima volta in un teatro: di fronte alla bellezza del luogo erano felici, emozionati, e hanno seguito la rappresentazione con umori variabili dalla passione all’entusiasmo, alla noia e al dubbio, come è normale sia: il giorno seguente, abbiamo discusso ore, assieme, per capire se Oreste fosse colpevole o innocente (ma di questo racconterò un’altra volta).
Veniamo dunque allo spettacolo.
La trilogia di Oreste, si sa, è fondante la nostra civiltà. È stata letta in tanti modi e in tante prospettive diverse. Potremmo ricordare, tanto per fare solo qualche esempio, la traduzione che ne fece Pasolini per Vittorio Gassman nel 1960, con quella “lingua civile” appena declinata ne Le ceneri di Gramsci, con al centro quella lettura “politica” che dava risalto alla nascita del primo “tribunale”. Oppure potremmo citare la estenuante e meravigliosa versione di Luca Ronconi, nel 1972, ingabbiata in una scatola di legno che tutto e tutti avvolgeva, prima sperimentazione di quei toni antinaturalistici e antitragici che da allora l’hanno accompagnato nelle sue regie. Infine, potremmo tornare con la memoria agli anni novanta, alla disperata, cupa, violenta, travolgente versione della Societas Raffaello Sanzio: mescolando sapientemente Ifigenia e Alice nel Paese delle Meraviglie, giocando tra filologia e dissacrazione, affondava nel torbido, violento e sanguinario mondo degli Atridi. Ma tanti, dall’indimenticabile edizione diretta da Peter Stein, alla “multietnica” versione firmata da Ariane Mnouchkine, si sono confrontati con questo moloch, traendone suggestioni e nuovi significati. Perché di fatto, al di là della trama che non sto qui a riassumere, l’Orestea è un cardine della cultura occidentale: è una narrazione aurorale e germinale, che ancora oggi possiamo investigare traendone inusitati svelamenti (si pensi, da ultimo, alle letture “di genere” del testo, con quel passaggio dal matriarcato al patriarcato, peraltro già evocato da Pasolini).
A Siracusa, nella mastodontica e suggestiva scenografia di Arnaldo Pomodoro, troviamo invece fragili tracce di complessità. Sfugge, almeno a me, il disegno generale. Va detto subito che lo spettacolo è molto gradito dal pubblico che ha riempito all’inverosimile il teatro: con grande scintillio di cellulari e tablet che tutto riprendevano e fotografano, neanche fossimo al concerto dei Rolling Stones, gli spettatori hanno applaudito a ogni cambio scena o quasi. Dunque, bene per carità. Lo spettacolo arriva tutto. E arriva anche in modo interessante nelle Coefore, complice un’ottima, commovente, Francesca Ciocchetti a far da Elettra e un vibrante Francesco Scianna, Oreste riccetto quanto basta da tagliarsi la famosa ciocca di capelli. Di livello, sempre magistrale, Elisabetta Pozzi, che fa una Clitennestra di notevole e struggente intensità. Il coro è nerovestito, quasi islamico: niente di nuovo, ma funziona per compattezza, intensità e per alcune belle individualità.
Il guaio è che Coefore poi “sbraca” nelle Eumenidi.
Vero: anche Eschilo è splatter, ma non fino a questo punto. C’è di tutto: che sembra di stare nella casa delle streghe di Mirabilandia. Mostri e fiamme (poi perché quelle Erinni col mocho vileda in testa?), addirittura gli sbandieratori e tutti a gridare come forsennati, con il coro costretto a voci “raspate” manco fossero Louis Armstrong. Una processione di effetti e effettacci: mancavano solo gli elefanti della marcia trionfale dell’Aida e i fuochi d’artificio per scatenare qualche altro applauso.
Allora l’energia del coro, quel coro potente e bello che è vero protagonista, si spreca, gira a vuoto, diventa addirittura fuori luogo: come stucchevoli risultano quei movimenti che ricordano più i film horror di Romero che non l’Ade di Eschilo.
Tra gli altri interpreti, voglio citare almeno Graziano Piazza, che se la cava con dignità e con l’eleganza che ha sempre contraddistinto il suo stare in scena, nel ruolo di Egisto. Purtroppo ho trovato davvero affaticata Piera Degli Esposti come Atena: autorevole, autorevolissima, venerata e simpatica maestra, però serve qualcosa di più per evitare un clima da inascoltabile “sermone”. È sembrato eccessivamente pedante – e statico, nonostante “l’ex-machina” in forma di carrello – l’Apollo di Ugo Pagliai, attore straordinario, ma qui troppo di routine; come pure Paola Gassman, manierata profetessa.
Di tale patchwork, mi perdonerete, ho perso il filo, il senso. Non ho capito più che cosa voleva dire il regista, cosa voleva dire l’Inda. Mi si risponderà: al pubblico piace, lo spettacolo incassa. Certo è un argomento incontrovertibile in tempi di crisi, però poi penso che anche Disneyland incassa e fa numeri e la cosa non mi torna, perché da un Ente pubblico come l’Inda ci si aspetta maggior coraggio nell’affrontare e tener vivi i classici. E anche il famigerato “pubblico”, non è poi così di bocca buona.
Mi si dirà: i riferimenti culturali cambiano, oggi è meglio Tim Burton di Duilio Cambellotti. Anche questo è vero e credibile: però mi vien da obiettare a un regista come Daniele Salvo, che ha raggiunto una maturità artistica, cui non mancano certo doti e qualità, che un po’ di nitore, un procedere più per sottrazione che non per accumulo, di solito funziona meglio. Almeno a teatro.