Koreja Teatro, nella bellissima Lecce, è una “casa”. Quello che era un capannone dell’immediata periferia è diventato infatti, negli anni, uno spazio accogliente, vivace, vitale. Un teatro dove – grazie all’instancabile lavoro di Salvatore Tramacere, Franco Ungaro e di uno staff incredibile per qualità, capacità e gentilezza – si torna sempre volentieri. È una “casa”, questo teatro, anche perché non è solo “bottega”: certo si producono spettacoli, e di livello, ma ci si trova a chiacchierare, a mangiare, a riflettere, dietro un bicchiere di vino salentino, su tante cose.
Ad esempio, durante il Festival “Teatro dei luoghi”, si è parlato a lungo – con operatori provenienti da tutto il mondo – del rapporto tra città e teatro, ovvero della relazione non sempre risolta tra l’edificio dedicato allo spettacolo dal vivo e il tessuto urbano, sociale, in cui insiste. Come scriveva Franco La Cecla, “le città assorbono e riflettono con una velocità impressionante le visioni, anche le più assurde, che gli artisti ne elaborano: il nostro immaginario urbano nasce colonizzato dalla storia delle immagini”. E se Benjamin sosteneva che la storia ormai noi la sperimentiamo solo come storia di immagini, vediamo anche le curiose declinazioni di una simile attitudine: Roma, per molti turisti, è quella della Dolce vita e adesso della Grande Bellezza; oppure per tanti architetti e urbanisti le piazze italiane da ristrutturare sono sempre quelle, vuote e desolanti, disegnate dal metafisico De Chirico.
Così, superata la vertigine del barocco leccese, in un affollato incontro, organizzatori e direttori artistici (da Sidney o da Vancouver, da Buenos Aires o da Parigi, da Bratislava o da Wroclaw) si sono confrontati su modalità di azione sui rispettivi territori e su strategie o possibilità di coinvolgimento e formazione del pubblico. Lecce, tra l’altro, è una delle città candidate a Capitale Europea della Cultura per il 2019, e il coordinatore artistico Airan Berg, presente all’incontro, ha potuto incontrare e ascoltare tutti quei punti di vista grazie all’iniziativa di Koreja, avviando così – si spera – ulteriori confronti con manifestazioni di grande respiro internazionale.
Koreja Teatro, dunque, ancora una volta si apre al mondo, si fa attivatore di discorsi e di pensiero, declina il fare spettacolo in una prassi di cittadinanza attiva, di azione concreta – non solo artistica – di cui l’amministrazione comunale, troppo a lungo “distratta”, deve tenere conto.
Ma nel Festival Teatro dei Luoghi, ovviamente, hanno trovato spazio anche gli spettacoli. A partire da La parola padre. Lavoro interessante, senza dubbio, guidato da Gabriele Vacis sul filo di un incontro tra giovani donne di nazionalità e lingue diverse, che prende le mosse dal confronto generazionale per poi allargarsi sistematicamente a una riflessione sul concetto di patria e di memoria. È un fare i conti, non senza nostalgia, con l’infanzia, con la sudditanza al patriarcato, con la dialettica tra generi: e ognuna delle sei bravissime interpreti – Irina Andreeva (Bulgaria), Alessandra Crocco (Italia), Aleksandra Gronowska (Polonia), Anna Chiara Ingrosso (Italia), Maria Rosaria Ponzetta (Italia), Simona Spirovska (Macedonia) – porta con sé un bagaglio di vissuto e di narrazione che ha il sapore aspro di verità amare. Così il racconto di un’infanzia vissuta nella ex Jugoslavia di Tito o nel regime polacco serve a mostrare i limiti stridenti e violenti del comunismo.
In uno spazio scenico semplicissimo eppure efficace di Roberto Tarasco – costituito da un centinaio di taniche di plastica di quelle usate per i distributori d’acqua da ufficio – le situazioni si dipanano in quadri che esplodono di partiture fisiche o di proiezioni di immagini, in momenti d’assolo o in coralità commoventi. Certo, è sorprendente il fatto che un gruppo italiano (per quanto il lavoro sia frutto di un percorso internazionale) faccia i conti con la memoria di Tito e non con quella di Mussolini: l’elaborazione del fascismo nazionale è tema da noi quanto mai eluso. O ancora – visto che di padri si parla – non ci si confronti con il Papa: l’assetto sociale e familiare nazionale è innegabilmente impregnato tutt’oggi dalla pervasiva, bigotta, reazionaria, dottrina cattolica. Così come sembra eccessivamente tendenziosa la visione d’insieme: da un lato padri tutti ottusi e stronzi, dall’altro tutte figlie, magari abusate o scacciate o incomprese, ma col complesso d’Elettra. La parola padre, allora, batte di un cuore forte e sincero, ma meriterebbe una maggior cura, qualche ripulitura che lo rendesse più essenziale, incisivo, liberandolo di alcuni momenti fin troppo manierati (certi sorrisi di complice “comprensione e solidarietà”, certi gesti inutilmente retorici e stucchevoli, certe digressioni prevedibili…).
Diverte e sorprende l’altro lavoro presentato dal gruppo leccese: Il Matrimonio, una reinvenzione (stupendamente filologica) da Gogol’. L’affannosa ricerca dello sposalizio, gli incontri combinati, la girandola di corteggiamenti, seduzioni, tentazioni inventate dallo scrittore russo a metà ottocento, poi anche messi in musica da Musorgskij, assumono qui squarci di grottesca attualità. Quella che è considerata una commediola, infatti – cui pure aveva dato lustro, qualche anno fa, il regista Valery Fokin con l’Alexandrinsky – diventa infatti una parodia riuscitissima dei tanti talkshow televisivi dedicati alle coppie. Senza peraltro spingere troppo (e giustamente) nella metafora tv, il regista Salvatore Tramacere tiene in piedi un gioco ritmatissimo, coinvolgente, in cui le “macchiette” originali si mutano sapientemente in tipi sociali d’oggi, facilmente riconoscibili. Ma al di là dell’apparente e spumeggiante competizione da Uomini e donne, i personaggi – e gli attori che si svelano oltre la maschera del personaggio – evocano tutte le difficoltà di amori sempre inseguiti e mai veramente conquistati, sogni di felicità di coppia franati nell’impossibilità del quotidiano, incontri che illudono per il tempo di un sorriso, progetti di vita assieme che crollano di fronte all’evidenza della vita. Forse, come decide alla fine il protagonista Podkolesin, si tratta di accettare la propria solitudine, con uno scatto di orgoglio – o di masochismo. Bravi e compatti i giovani attori di Koreja, che voglio citare tutti: Ivan Banderblog, Francesco Cortese, Giovanni De Monte, Carlo Durante, Erika Grillo, Anna Chiara Ingrosso, Emanuela Pisicchio, Fabio Zullino.
Infine, un ultimo piccolo, incoraggiante, segnale da Lecce: Demoni-Frammenti, che Alessandro Miele e Alessandra Crocco hanno elaborato dall’opera di Dostoevskij, estrapolandone piccoli tasselli, per uno spettatore alla volta. Frammenti minimi, diretti, intimi, immediati. Ho visto solo il primo di questi, Marija, nella bellissima cornice di Palazzo Tamborrino-Cezzi. Una stanza illuminata dalla luce fioca di una candela: lei, seduta, aspetta, poi ti parla, guardandoti senza vederti. È un incontro, è un ritorno, è un abisso: in un istante precipiti nella situazione, fatta di colpa, mancanza, delusione. Poi lei ti guarda: e basta uno sguardo come quello, struggente, per dirsi addio.