C’è stato un bellissimo, partecipe applauso a chiudere la replica di Io, mai niente con nessuno avevo fatto della giovane compagnia Vuccirìa Teatro, cui è toccato l’onore di aprire la 21esima edizione del Festival Garofano Verde, in un affollatissimo teatro Argentina di Roma. Ben ha fatto, dunque, il critico Rodolfo Di Giammarco, ideatore e direttore della manifestazione dedicata agli “scenari del teatro omosessuale”, a chiamare Vuccirìa Teatro: lo spettacolo è piaciuto, l’adesione degli spettatori era notevole.
Si tratta, per dirla brevemente, di un racconto fatto a sua volta tre da racconti che si intrecciano e a tratti si sovrappongono: tre storie di vita, che hanno per protagonisti altrettante “marginalità”. Due cugini, un maschio e una femmina – nati entrambi da padri ignoti – e un terzo figuro che con il giovane maschio avrà molto a che fare. Scritto e interpretato da Joele Anastasi, in scena con Federica Carruba Toscano (che è l’esplosiva e sentimentale cugina) e con Enrico Sortino (che è “l’altro”, il macho) questo spettacolo, però, a me non ha convito. Anzi, a esser sinceri, mi ha proprio irritato.
Forse non l’ho capito, vista la bella reazione del pubblico, ma provo a spiegare il perché mi trovo in disaccordo.
La dinamica narrativa si basa su una serrata ricerca linguistica: che è, in sostanza, il palermitano cui ci hanno abituato maestri come Cuticchio, Scaldati e giovani come Enia o Provinzano (e sul versante più popolare e letterario Camilleri), ma cui siamo affezionati soprattutto per il teatro di quella straordinaria artista che è Emma Dante. Non sono pochi, ormai, i Dantisti – ossia coloro che si ispirano a Emma – nel teatro italiano: e proprio alle dinamiche compositive della Dante guarda, credo decisamente troppo, il lavoro di Anastasi, tanto da far sembrare l’esito scenico una filiazione epigonale tardiva e posticcia (ancorché sincera).
Lo si desume non solo dal ritmo interno ad ogni battuta, ovvero dalla struttura linguistica e dai tempi tutti in levare; né solo dall’uso di certi costumi – per cortesia nel 2014 al bando sottovesti da donna, mutande, vestiti da sposa messi dagli uomini – ma anche e soprattutto da quella che possiamo definire “ambientazione”. Ossia il rimando a una Palermo e una Sicilia arcaica, violenta, passionale, rituale. Il problema è che se Emma Dante riesce a far assurgere a “mito” quel mondo, rendendolo universale con lucidità e coerenza interna, e portando sempre le sue tribù familiari nei territori eterni del tragico, qui mi sembra che ci si muova per “sentito dire”. Insomma, un tragico “al telefono”, che del “pathos palermitano” mantiene solo la (ormai consunta) forma. La drammaturgia risulta lasca, a tratti banale, contraddittoria nell’esito finale: se il mondo è quello di un sottoproletariato urbanizzato, o addirittura contadino (il terzo personaggio, se ho capito bene, viveva in una cascina, con la stalla luogo di efferatezze erotiche, salvo poi scappare in “paese”) risulta poi improbabile coniugare quell’universo pre-pasoliniano, da anni Cinquanta, con le dinamiche di una contemporaneità in cui appare come elemento definitivo l’Aids.
Quegli stilemi alla Compare Turiddu, per quanto gay, hanno ancora senso? Esiste ancora oggi una Sicilia in quel modo?
Se la storia non decolla, entrando nel tragico e diventando dunque universale – e per me questo non è accaduto – quel che resta è un pastiche irrisolto, un quadretto folklorico. L’“arcaico”, insomma, pare sia una gabbia dalla quale non si riesce ad uscire, con la conseguenza – inattesa – di suonare manierati, addirittura prevedibili, forzando i personaggi in stantii cliché. Il protagonista di questa vicenda si scopre molto preso gay: Joele Anastasi ne fa una figuretta che dovrebbe risultare candida, ingenua, pura. Ne viene fuori una specie di macchietta, una parodia della parodia della “checca felice finché non muore” francamente irritante.
Ancora qua, siamo? È questo l’immaginario omosessuale? È questo il dibattito attuale sulla libertà sessuale, sui diritti, sull’amore o la passione del mondo gay?
Sembrano passati invano Michelle di Sant’Oliva o Le pulle (per rimanere ai riferimenti interni) ma anche, per non citare ancora Pasolini, filmacci come Philadelphia, Priscilla o addirittura Il Vizietto! Altrettanto prevedibili sono gli altri due caratteri (poi spiegatemi, per favore come un ragazzino che si presuppone analfabeta, scappato dalla campagna, possa esser salvato da una signora che lo trova in strada e ne fa un maestro di danza); e ridondanti, se non pedanti, le poche soluzioni registiche che cercano di animare un lavoro tutto frontale e continuamente gridato, fino al parossismo del finale emmadantesco, con lui che salta qua e là, con taglio luci a effetto e musica a palla.
Insomma, che dire?
Il pubblico ha sempre ragione; e i componenti di Vucciria Teatro sono in gamba, preparati, pieni di energia, ma proprio per questo da loro mi aspetto, in futuro, molto di più.