C’è un filo conduttore, di poesia minima, di piccole tracce di sentimento, a far da trama sottile alle giornate di Contemporanea (due quelle cui ho assistito), il festival di Prato organizzato dal Metastasio e diretto da Edoardo Donatini.
Tracce raffinate, evanescenti e delicate che possono risultare poeticamente affascianti ma, se va male, impalpabili o inconsistenti. Sono filamenti che scorrono sotterranei, intessuti di rimandi interni (anche blandamente autoreferenziali) che pure – se assommati – sembrano un tentativo di risposta, quieta e ferma, al frullatore culturale e sociale di questi tempi.
Insomma, almeno per quel che ho visto io, si avverte diffuso un tornare a cose (o segni) semplici, primari, immediati. Un abdicare ai grandi impianti scenici o alle rivendicazioni ad alta voce. Semmai è un sussurrare, un suggerire, cercando di far riflettere senza sconvolgere.
Ecco dunque, uno degli “eventi” più attesi che nega subito a se stesso il ruolo di evento, optando per un incontro tra persone dal sapore intimo, catacombale. Ritroviamo infatti Claudio Morganti nella stessa cantina dove, al festival dello scorso anno, dava voce per frammenti al Lenz di Bücher. Oggi, affiancato da una splendida Elena Bucci, l’attore e regista Morganti offre un piccolo rito – pochi tavoli, vino rosso, uva per gli spettatori – che si declina nella “lettura” di Recita dell’attore Vecchiatto nel teatrino di Rio Saliceto, libro di Gianni Celati di qualche anno fa in cui lo scrittore immaginava la desolante e desolata ultima replica – tra vita e teatro, tra biografia e fantasia – di un attore di chiara fama e di sua moglie. Storia stralunata e sulfurea, aspra di una amarezza molto bernhardiana, giocata tra ricordi e illusioni. Lui, l’attore Attilio Vecchiatto, dopo anni di successi in Sud America, sempre accompagnato con la fedele moglie Carlotta, si ritrova per un improbabile spettacolo proprio nel teatrino di campagna di Rio Saliceto . Al di là dello spettacolo, che si farà nel suo inesorabile disfarsi, lo stare in scena di fronte ai pochi spettatori (alla fine sarà solo una signora mezzo addormentata) diventa occasione per una continua recriminazione, per un gioco metateatrale in cui l’astio, la rabbia, il nervoso, lasciano spazio a una tenerezza crepuscolare, a una amarezza umana condivisa, a una nostalgia che non diventa mai rassegnazione. Anzi: la reazione allo sconforto di fronte a questo Paese devastato dai Giornali (Vecchiatto se la prende soprattutto con il Corriere della Sera), dalla banalità, dalla volgarità, dal rifiuto della cultura, è un coraggioso rifiuto, un amaro declinare nel buio che tutto avvolge: forse l’amore che lega i due attori, quel loro cercarsi la mano, è l’unica risposta. Inutile dire quanto siano bravi Morganti e Bucci a tenere quella impalpabile tensione, quella sospensione tra recitazione, lettura, interpretazione, vissuto, verità: sembra che non ci sia nulla, e c’è tutto.
Gioca nella marginalità anche I Caliban, nuova tappa dell’Accademia degli Artefatti, nelle riscritture shakespeariane di Tim Crouch. Dopo Fiordipisello, Cinna, Banquo, arriva appunto il selvatico Calibano della Tempesta. La drammaturgia di Crouch non è la migliore della tetralogia, ma pure qui – nella interpretazione di Fabrizio Croci, diretto da Fabrizio Arcuri – si avverte quel tentativo di cambiare prospettiva, di far parlare gli “altri”: un Calibano affascinante e mostruoso, di fatto abbandonato da tutti, che si riduce a parlare con ciambelle di plastica da mare e altri giocattoli. È un gioco amaro quello di Caliban, di un adulto bambino, un orfano irrisolto, nel suo desiderio di essere accettato e compreso. Il tema, ancora una volta, è l’identità, la faticosa accettazione di sé da parte degli altri. E poco vale provarci, anche ostinatamente: Caliban insegna che, nonostante i mille sforzi, dobbiamo fare i conti con il restare soli.
Merita un discorso a parte (e lo faremo) lo studio su Jesus di Babilonia Teatri: a Prato abbiamo visto un primo piccolo passo, lo studio di uno spettacolo che debutterà tra poco al Festival Vie, dunque rinviamo ogni riflessione: anche perché tra Gesù, Vangeli, Mosè in arrivo e Pietà ogni dove, l’attitudine cristologica del nostro teatro sta diventando inquietante.
Vale invece la pena spendere subito qualche parola per Journals of Curaciòn #1, titolo impegnativo per la lettura-spettacolo curata da Leonardo Mazzi e Codice Ivan a partire dai (mestissimi) diari botanici di Derek Jarman. Parlando di giardinaggio, della cura per le proprie piante, della semplice bellezza di fiori o alberi, Jarman raccontava di sé e dell’Aids che falcidiava il suo mondo. Ma, oltre l’empatia dolente per un tragico destino, il testo si declina spesso in un ridondante elenco di nomi di piante, in cui lo “stupore” dell’autore per le fioriture o per la resistenza alle intemperie degli arbusti non fa propriamente commuovere. L’allestimento, poi, si dipana in una “destrutturazione”, che affianca un quartetto rock (bravi i The Flamingos) che suona live, in una telecamera che riprende e fa giganteggiare dettagli di piante, e nel narratore che – seduto su una palla di gomma da ginnastica – legge il testo. Se ne esce un po’ provati, soprattutto annoiati.
Diverso, invece, l’esito di Rhizikon, piccolo, delicato lavoro di Chloé Moglia, stupendamente interpretato da Mathilde Arsenault Van Volsem: danza contemporanea e circo, ironia e fantasia per uno spettacolo che indaga l’idea di “rischio”, mescolando sapientemente tecniche da trapezio circense e coreografia, ginnastica artistica e narrazione. Usando la struttura portante come “lavagna” per improvvisati fumetti disegnati a gesso, e poi come sbarra per vertiginose acrobazie, potenti e delicatissime, la protagonista crea un mondo d’incanto, in cui la legge di gravità sembra sconfitta dalla grazia.