È un curiosissimo spaccato sociale, generazionale, artistico e culturale il Premio Giovani Realtà del Teatro, indetto dalla Civica Accademia “Nico Pepe” di Udine, che ho avuto il piacere di frequentare per il secondo anno consecutivo.
Alla sua settima edizione, è una manifestazione che si rivolge a gruppi teatrali o singoli artisti under 35, cogliendoli in momenti ancora dichiaratamente acerbi, in divenire, guardando e puntando alla possibile crescita. Tre le giurie coinvolte – quella formata da artisti della scena, quelle dei docenti dell’Accademia e quella dei giornalisti – chiamate a valutare proposte di spettacoli della durata di venti minuti o monologhi di dieci minuti. Facevo parte di una di queste giurie, dunque mi astengo, qui, dall’entrare nel merito delle decisioni finali: cito naturalmente il primo premio, andato ai liguri Elisabetta Granara e Giancarlo Mariottini, con Proclami alla nazione (i nomi dei vincitori nelle varie categorie si possono leggere sul sito della “Nico Pepe”, www.nicopepe.it). Ma nel fare i complimenti a tutti i premiati, mi piace riflettere su questa giornata di bel teatro per alcune considerazioni.
Quest’anno erano oltre venti le proposte. Venti gruppi non sono un campione attendibile, ma certo indicativo: anche perché sul palcoscenico del Palamostre di Udine, si sono alternati a ritmo serratissimo gruppi provenienti da tutta Italia, composti da giovani e giovanissimi (a volte neo diplomati di scuole nazionali) selezionati con gran rigore dal direttore dell’Accademia, Claudio De Maglio, e dai suoi collaboratori . E già questo è un primo dato da considerare: ogni anno c’è una sovrabbondante offerta di teatro “nuovo”, un teatro peraltro diffusissimo che fiorisce in tutto il Paese, da Nord a Sud. Continuamente si formano compagnie, gruppi, si avviano percorsi solistici.
È curioso, no?
L’Italia, come è evidente, detesta, sminuisce, svilisce ormai sistematicamente – salvo proclami sul “petrolio della cultura” – tutto ciò che è arte e spettacolo. Eppure, nonostante i lunghi anni di “berlusconismo applicato”, nonostante i ministri della Cultura e della Pubblica Istruzione, nonostante i contest e gli xfactor, il crozzismo e il leghismo, nonostante le politiche salottiere di destra e sinistra, nonostante i massoni e i cialtroni, le olgettine e le veline, c’è ancora chi studia per fare (bene) l’attore e l’attrice, il regista o il drammaturgo. Sono tanti, ovunque: dalle Università alle Accademie, alle tante scuole private c’è un’attività di formazione permanente (e spesso prosegue in modo ossessivo in un eccesso di stage, seminari, workshop) che ha fatto sì che il livello medio degli interpreti italiani si sia decisamente alzato.
Dalla stessa Accademia di Udine, ad esempio, che è una “piccola” scuola se paragonata alle sorelle maggiori come “Paolo Grassi” o “Silvio d’Amico”, sono emersi giovani artisti che stanno riscuotendo successo in tutta Italia: dai componenti la compagnia Carrozzeria Orfeo, passando per i promettenti Vico Quarto Mazzini (Gabriele Paolocà in scena in questi giorni a Roma al teatro Orologio), al bravo Matteo Oleotto, fresco regista del brillantissimo film Zoran, il mio nipote scemo. Dunque, c’è uno spaccato generazionale di gente che non si fa facili illusioni (televisive), che studia e combatte, giorno dopo giorno, per fare teatro.
Che teatro fa? Ecco un’altra domanda che ci si poneva a Udine.
Già rispetto allo scorso anno, le compagnie presenti nell’edizione 2014 hanno mostrato senza dubbio qualità “interpretative”, ma una diffusa fragilità compositivo-drammaturgica. La questione non si risolve, in questo caso, semplicemente “stroncando”: si tratta di comprendere le ragioni di questa che chiamerei proprio “confusione generazionale”. Quel che si avverte, trasversale, al di là degli esiti, è un vero spaesamento formale e contenutistico.
Ci si aggrappa, con grande determinazione, quasi disperazione, a temi attuali (su tutti il gioco d’azzardo), alla storia (variamente: dalla Prima guerra mondiale, in vista delle celebrazioni; alle memorie familiari delle nonne) alle situazioni familiari (dalla Puglia vengono solo o quasi storie di matrimoni). Eppure questi argomenti sono affrontati in modo stereotipato, convenzionale, fragile appunto. Si avverte, da un lato, un grande perbenismo, un voler essere politicamente corretti, addirittura stucchevolmente buoni, antichelli. Dall’altro, il lato oscuro, il male sociale e esistenziale, è affrontato in modo quasi manicheo: anche laddove si cercano sfumature, ribaltamenti, dialettiche possibili i risultati appaiono banalini, prevedibilissimi.
Il guaio, insomma, è una generalizzata fatica ad orientarsi, a respirare, ad essere visionari in questo mondo sfranto. Evidentemente la crisi economica diffusa sta incidendo – e non poco: l’abbiamo visto anche in altri premi e in vari festival – sulla creatività. Anche quel ritorno sistematico ai “nonni” (anzi: alle nonne) come figure mitizzate di affettuosità, certezze, identità socio-politica, pare una fuga dall’oggi, un’ammissione di disagio rispetto alla fiducia nel futuro che potevano avere gli avi nonostante le difficoltà di quei tempi.
L’altro fronte su cui riflettere è quello propriamente “artistico”, ovvero tecnico: si è detto che la qualità interpretativa si è sicuramente alzata, ma questa viene incanalata in spettacoli (o studi, come nel caso di Udine) che ricalcano spesso stilemi compositivi ormai formalizzati, con effetti epigonali. Al Premio Giovani Realtà, fortunatamente, l’effetto dejà-vù è stato raro, ma non assente. Se poi pure andiamo a ficcare il naso in altre manifestazioni o in altri premi, si notano gli epigoni-allievi di Emma Dante (chi non ha fatto un laboratorio con Emma alzi la mano!), di Antonio Latella, di Roberto Latini, etc etc.
Come se si procedesse al montaggio per pezzi di riferimenti, di rimandi, di strutture “apprese da” in un sincretismo – per tanti aspetti naturale – che però fa l’effetto di pastiche, di patchwork privi di senso. Si avverte, dunque, sempre più spesso, la mancanza di una robusta drammaturgia, che si limita all’accostamento di frammenti per accumulo; e si sente il bisogno di una regia rinnovata e coraggiosa, capace di superare modelli dati, a volte conosciuti solo per “sentito dire” e non per reale e profonda introiezione.
Due campi su cui tornare a riflettere, allora, sono composizione e montaggio: banco di prova per esperienze artistiche che ambiscono al lungo respiro, alla crescita e alla durata nel tempo. Chiarire che cosa vogliamo raccontare, e come. Altrimenti, il rischio è di avere tanti “cortometraggi”, magari anche bellini, destinati a un veloce consumo e a un altrettanto veloce oblio.
Per quel che riguarda la crisi, beh: non resta che pensare che prima o poi Renzi proporrà gli 80 euro anche per gli artisti e il problema sarà, ovviamente, risolto.