Con questo post, L’Onesto Jago vi saluta. Ringrazio la redazione del Linkiesta per lo spazio e l’attenzione, e soprattutto ringrazio i miei dieci lettori: per la pazienza, la fiducia, la curiosità con cui avete seguito le nostre scorribande nel teatro italiano. Chi vorrà, potrà trovarmi, sempre on line.
Poi uno dice: l’ho fatto con le migliori intenzioni. Pensavi di far bene, e invece. Invece ci sono spettacoli che non riescono, come le famose ciambelle. Tutti i passi giusti e poi niente, non arrivi. Qualcosa non torna. Capita spesso, e non è mica un problema: anzi, in teatro come nella vita è bello rischiare, tentare strade nuove, sperimentare. E se non tutto funziona poco male, si impara molto di più dai propri errori che da tante conferme. Soprattutto gli errori sono utili a certi artisti quando provano a forzare le maglie delle reti in cui sono ingabbiati, elaborano nuove formule, cercano di superare stilemi in cui sono riconoscibili e troppo spesso bollati.
Allora è capitato, questa settimana, di vedere un paio di cose che – sulla carta – potevano avere esiti scintillanti, coraggiosi cambiamenti di rotta, e invece si sono lasciati dietro qualche dubbio.
Il primo è Darling, della premiata ditta Ricci/Forte.
Mi aveva intrigato la prima fase di lavoro, breve e potente, aperta al pubblico all’ultima Biennale Teatro di Venezia. Poi sono andato al debutto ufficiale dello spettacolo, al RomaEuropa Festival. Una serata da magone: tutto troppo insistito, urlato, troppo farraginoso, ridondante e retorico. Non funzionava. Abbiamo poi scoperto che c’erano stati guai seri prima della prima: tra cui un brutto incidente capitato alla sempre brava Anna Gualdo. Così, siamo arrivati fino a Udine, per l’apertura della brillantissima Stagione Contatto firmata dal CSS. Lo abbiamo fatto volentieri: Stefano Ricci e Gianni Forte sono due artisti seri, che apprezziamo da tempo e se pure non tutto è sempre condivisibile, meritano attenzione. Allora Darling, sorta di attraversamento dell’Orestea di Eschilo, ne è uscito sicuramente compattato, funziona nell’insieme, ha trovato incisività e momenti significativi, in particolare quelli legati alla straordinaria presenza della stessa Gualdo (in scena con Giovanni Sartori, Gabriel Da Costa, Piersten Leirom). Darling, dunque, ha riscosso un sincero applauso del pubblico.
Però per me ancora non decolla. Perché? Provo a spiegare.
La struttura scenica (una versione hangar della skéne greca) si fa contenitore di efferatezze e si smonta a mostrare la nuda forma del palcoscenico. Dietro, una fila di fari in faccia al pubblico (ormai d’obbligo abbagliare gli spettatori); davanti, i quattro protagonisti della vicenda. Dopo il prologo di una “scolta” avvolta in un copertone militare, appare la Gualdo, in costume settecento, maschera cadente e parrucca. Inizia un monologo che sarà, declinato diversamente da tutti gli attori, il leitmotiv dello spettacolo: la voce è emessa a forza, con difficoltà (lei evoca, in qualche modo, il celebre monologo della Mariangela Melato nell’Orestea di Ronconi), ed è un miscuglio tra regole della buona società – come si compone una perfetta bomboniera di nozze, come si tengono le posate, etc – interpolate da frasi violente, aspre, barbare. Che poi, si potrà dire, è la tragedia della famiglia, dagli Atridi a oggi, di questi bambini-adulti incapaci di crescere che ancora giocano a nascondino. Lo spettacolo avanza per quadri: qui però, più che nei lavori precedenti, Ricci/Forte assumono una dinamica da videoclip, una canzone a palla, per tutta la durata (meglio se famose: da Satisfaction a Starway to heaven) accompagnata da azioni e coreografata, intervallata da sequenze di testo. Alcuni momenti, si è detto, funzionano bene: ad esempio l’evocazione de La febbre del sabato sera, danzata su musica da processione; un divertente siparietto da teatro dei burattini che riassume l’Agamennone, primo capitolo della trilogia di Eschilo; il finale con bambolotti di neonati piantati in vasi e innaffiati…
Altre situazioni, invece, sono semplici riempitivi tra un quadro e l’altro, che potrebbero essere ulteriormente sfrondati. Ma Darling sembra troppo a effetto, posticcio, nonostante le lacrime, i mille ammiccamenti, i sorrisetti che pure suonano stucchevoli, i broncetti, quegli abbracci guardando l’orizzonte. Nel momento in cui la regia si espone di più (“Stefano” è chiamato in causa più volte dagli attori, quasi a rimarcare la presenza viva del regista nel fare lo spettacolo, e non pochi sono i momenti di “metateatralità”) l’esito rischia di non essere all’altezza. E quelle frasi dei monologhi, che nei precedenti lavori erano intime e condivisibili, lanciate al cielo così seriosamente, risuonano sermone superficiale, ridondante, vuoto simulacro di un inno alla vita cui non si riesce a dar troppo ascolto.
Che abbiano perso l’ironia i nostri Ricci/Forte? Siamo certi di no.
Chi invece sembra aver smarrito (spero temporaneamente) la propria tagliente e ironica ferocia, l’aguzza capacità di criticare il presente, è Babilonia Teatri, un gruppo che abbiamo sempre stimato e amato. Jesus, il nuovo lavoro, visto nella stagioncina del Teatro Olimpico di Vicenza diretto da Emma Dante, è un papocchio. Magari fosse un “pap’occhio” alla Arbore: no, qui si parla di Gesù, di Cristi, Chiese e Valori (posso immaginare tutti con la maiuscola) con vero fervore. Che Enrico Castellani e Valeria Raimondi (è co-autore anche Vincenzo Todesco) abbiano avuto difficoltà a trattare una materia tanto ampia e complessa lo dicono loro stessi, in quello che è il dialogo – ritmato, scandito, alternato come sono abituati a fare – che apre lo spettacolo. Gesù è ovunque, la chiesa è pervasiva, ci gridano: sbugiardando uno Stato come il nostro che si dice laico e che è sempre più confessionale.
Mi piaceva molto questo attacco alla struttura mentale italiana, al perbenismo bigotto del Paese, al fatto di essere tutti congenitamente, ottusamente, cattolici senza nemmeno accorgercene più. E invece, si scivola presto sui buoni sentimenti. Ci aveva un po’ insospettito l’apparizione del figlioletto della coppia, che apre il lavoro correndo felice in scena: dicevano Ciprì e Maresco, all’epoca in cui facevano CinicoTv, che non avrebbero mai usato bambini nei film perché viziano la percezione. Invece, evidentemente folgorati sulla via della Famiglia (anche qui maiuscola), con Babilonia Teatri seguiamo i famosi “perché” dei bimbi: ci si interroga sulla Vita e sulla Morte, su Gesù e la Croce. Capita in tutte le famiglie, non è detto che ci si debba far uno spettacolo intero.
Allora, quella che poteva essere la denuncia sull’Italia Stato Cattolico (una denuncia ormai appannaggio solo o quasi, del fiero Marco Bellocchio), quella che poteva essere e in parte è, una riflessione sul misticismo d’accatto, sull’ossessiva cappa di preti e suore stesa anche dal sorridente SuperFrancesco, scivola in una aggraziata apologia della Fede.
Non manca nulla: dalla cacciata dal Paradiso, a un (imbarazzante, mi spiace dirlo) Ave Maria intonata con trasporto dalla Raimondi, fino a un Credo che parte con «credo nelle chiese di pietra» che vorrebbe essere Pasolini – forse voleva far pensare a «Io sono una forza del passato…» –e che invece risulta una preghierina da alternativi PapaBoys in gita. Anche qua arrivano le hit sparate a tutto volume: prima Vasco Rossi (per pensare) poi Personal Jesus (per ballare), in una struttura compositiva paradossalmente molto simile a quella di Ricci/Forte.
Insomma, l’effetto boyscout sorridente o cattocomunismo renziano è dietro l’angolo: di quelli che affermano dubbiosi di riconoscere le contraddizioni, ma di credere. Senza un filino di ironia, si sente dire: «Voglio un Dio/comprensivo e misericordioso/Un Dio che è solo amore/e amando sempre sempre perdona». E ancora, poco dopo: «Paradiso per tutti/paradiso subito», con buona pace del Living Theatre, che quando gridava Paradise now, si riferiva a tutt’altro.
L’arte, si sa, è sempre stata “sacra”: abbiamo musei pieni di Madonne. Ma, nelle derive misticheggianti, esoteriche, esotiche, confessionali, credenti, ortodosse, fatte di improbabili e fanatiche Sentinelle in piedi o di allucinanti Militiae Christi, che si avvertono in Italia, il teatro – ma lo dico sommessamente, è un parere personale – potrebbe e dovrebbe difendere qualche traccia di sana laicità.
A Vicenza, nel teatro di Palladio, Babilonia Teatri risparmia il finale con il figlio imbracato a un elastico che svolazza in cielo innocente, felice e benedicente: ce lo raccontano, invitando il pubblico a immaginare l’effetto. Però mancava Bianco Natal in sottofondo e non ci siamo riusciti.