Giovine Europa nowEmergenza Ebola? Della diversità tra guarigione e cura

Ringraziamo vivamente l'antropologa Elisa Grandi (vedi note biografiche in conclusione), che torna sul tema "Ebola" con un taglio medico antropologico.   Una storia Dallas, Stati Uniti. Thomas Eri...

Ringraziamo vivamente l’antropologa Elisa Grandi (vedi note biografiche in conclusione), che torna sul tema “Ebola” con un taglio medico antropologico.

Una storia

Dallas, Stati Uniti. Thomas Eric Ducan (ormai conosciuto come il “caso Dallas”) sta fronteggiando il virus dell’ebola, allontanato dai suoi famigliari che dovranno essere monitorati e tenuti inisolamento per un periodo di 21 giorni, cioè il periodo massimo di incubazione della malattia. Passata la paura iniziale, si può dirlo quasi con certezza: non sarà il quarantaduenne liberiano ad entrare nella storia come il paziente “zero” che ha portato il tremendo virus negli Stati Uniti. Tuttavia gli rimarrà il merito di aver fatto scattare il campanello di allarme sull’efficacia delle misure di sicurezza adottate dagli stati occidentali per prevenire il diffondersi dell’ebola su scala mondiale. Prima della partenza del volo per l’Europa, il Sig. Ducan è stato sottoposto ai controlli della temperatura corporea (nel formulario ha dichiarato di non esser stato in contatto con portatori della malattia), ma l’ebola è rilevabile attraverso la misurazione della temperatura solo nel momento in cui diviene manifesta ed infettiva, quindi quel controllo è stato inutile: non ha rilevato nulla di sospetto. A fronte di questo caso, la comunità internazionale si è interrogata sulla necessità di bloccare i voli da e per i paesi contaminati dall’ebola. Diverse compagnie aree hanno già drasticamente ridotto i voli in questione, le autorità sconsigliano i viaggi in tali zone ed è estremamente difficile ottenere i visti, alcuni paesi africani della zona, come la Costa D’Avorio, hanno adottato misure restrittive al transito presso i varchi di frontiera, mentre il portavoce del Center for Disease Control and Prevention sottolinea come la chiusura dei voli potrebbe rivelarsi una mossa errata che invece di limitare la diffusione del virus ne peggiorerebbe la propagazione. Gli attori internazionali infatti non riuscirebbero più a introdurre nei paesi non solo le attrezzature mediche necessarie, ma soprattutto il personale sanitario professionista in grado di far fronte all’emergenza.

Il Center for Disease Control and Prevention suggerisce di puntare sul rispetto delle procedure di prevenzione e contenimento.  Proprio le misure che hanno fallito nel caso Ducan. Il 20 settembre, da Monrovia, capitale del paese liberiano, e tra le zone più colpite dal virus, Thomas Eric Ducan vola a Dallas per far visita ai propri parenti e, secondo alcune fonti, per sposarsi. Tuttavia, dopo pochi giorni, il 24 settembre, avvertendo febbre e dolori addominali, si reca al pronto soccorso. Federico Rampini, corrispondente di Repubblica nel suo articolo di cronaca apparso il 2 ottobre 2014 (eventuale link http://www.repubblica.it/salute/2014/10/02/news/dallas_psicosi_ebola_dop…) riporta che il paziente avrebbe correttamente compilato il formulario al pronto soccorso segnalando ad un’infermeria il recente viaggio in Liberia, ma “la burocrazia sanitaria ha seppellito sotto quella montagna di carta l’indizio prezioso che avrebbe fatto scattare la diagnosi”. La CNN riporta la dichiarazione del dottor Mark Lester, vicepresidente della “Texas Health Resources”, che ammette che le informazioni dei viaggi del pazienti non sono state “completamente comunicate” al personale medico. Dopo delle analisi del sangue di base (e nessun test per il virus dell’ebola), Thomas Eric Ducan viene rispedito a casa con la prescrizione di semplici antibiotici. Quando è ritornato al pronto soccorso alcuni giorni dopo, la macchina contenitiva si è finalmente attivata: il Sig. Ducan è stato messo in isolamento, come pure la sua famiglia. Nelle successive 24 ore  sono stati ricostruiti tutti i contatti avuti dal paziente e 50 persone hanno iniziato ad essere monitorate, 40 di queste considerate a basso rischio. Il New York Times, il primo ottobre, riesce a pubblicare una ricostruzione delle dinamiche del contagio avvenuto nella patria natale di Ducan nel quartiere 72nd SKD Boulevard di Monrovia, dove il paziente “zero” avrebbe contratto la malattia aiutando una donna in gravidanza, figlia dei vicini di casa, a raggiungere l’ospedale. Marthalene Williams, raccontano i genitori, aveva gravi convulsioni e non  essendoci ambulanze disponibili è stata condotta all’ospedale in taxi  con l’aiuto di tre uomini, tra cui Ducan. Poiché l’area destinata all’isolamento per i malati di ebola era al completo, la donna è stata rimandata a casa ed è deceduta alcune ore più tardi. Anche Sonny Boy, l’altro uomo insieme a Ducan ad aiutare la donna a raggiungere l’ospedale, ha contratto il virus ed è deceduto pochi giorni dopo. Negli Stati Uniti, il sistema di tracciamento del contagio è stato davvero efficiente: in pochi giorni non solo si è isolata l’origine del virus (Ducan correttamente trattato in ospedale), ma si è riusciti a monitorare tutti i contatti avuti nel periodo a rischio. E oltre a ciò, pur nel mare di tragedie familiari e comunitarie della capitale della Libera, si è riusciti a tratte le fila di ciò che accadde al pazienti prima del ritorno in America.

Tutta un’altra storia

L’ufficiale della U.S. Public Health Service Rebecca Levine, che ha deciso nella vita di diventare una detective dei virus non ha avuto altrettanta fortuna. Il 17 Agosto, si reca presso il Ministero della Salute in Sierra Leone (insieme a Liberia e Guinea, cuore dall’emergenza) per collaborare allo sviluppo di un sistema di tracciamento, ma ciò che trova è disarmante: solamente il 20-30% dei contatti erano utilizzabili. In poco tempo realizza che il contenimento del virus è impraticabile con tale sistema(in generale nelle zone del contagio dell’Africa occidentale solamente 14 su 66 zone hanno sufficiente tracciabilità dei dati). Rebecca Levin comprende in breve tempo quanto sia difficoltoso individuare un formato di indirizzo standard per i contatti (spesso le indicazioni che raccoglie sono vaghe, come “al fondo della strada”), ma deve anche fare i conti con l’alta mobilità dei residenti e con una cooperazione molto scarsa da parte dei locali. Le persone infatti si rifiutano spesso di fornire i contatti, perché sospettano che la lista sia una sorta di lista della morte, , dal momento che l’ospedale è spesso visto come il luogo in cui si entra malati, e da cui raramente si esce vivi. I locali preferiscono dunque affidarsi alle cure della comunità e dei famigliari. Consideriamo anche che accedere alle cure ospedaliere spesso consiste in una spesa non irrilevante per la famiglia del malato. Purtroppo per il virus dell’ebola non c’è nemmeno una merce di scambio per convincere le persone a fornire i contatti. Come ben sappiamo, allo stato attuale fervono le sperimentazioni, saltando anni e anni di rigidi protocolli, ma non sono ancora disponibili né vaccini né cure. È importante ricordare che la World Health Organization individua tra le cause di diffusione del contagio, accanto alla difficoltà di realizzare capillarmente delle misure di contenimento e alla elevata mobilità della popolazione, anche le credenze e le pratiche tradizionali, che contrastano con le azioni di prevenzione. In particolar modo sottolinea come alcuni costumi rituali del trattamento della malattia e dei morti, tra cui la pratica tradizionale del lavaggio dei defunti prima della sepoltura, abbiano giocato un ruolo non trascurabile nella diffusione dell’ebola. I sistemi sanitari dei paesi colpiti sono collassati, l’epidemia non è ancora sotto controllo. Anzi Save the Children denuncia cinque nuovi casi ogni ora in Sierra Leone, che potrebbero diventare 10 entro la fine del mese. Analoghi comunicati sulla gravità della situazione vengono rilasciati da Medici Senza Frontiere e dalle altre organizzazioni operanti sul territorio. Quello che più spaventa sono le gravi conseguenze di questa crisi: una volta domata l’espansione della malattia (per la quale si parla di sei mesi almeno), occorrerà fare i conti con un’economia completamente distrutta, delle perdite umane altissime che si configurano niente di meno che come un nuovo trauma collettivo da affrontare in paesi come la Liberia e la Sierra Leone, dove il ricordo del trauma della guerra civile è ancora vivo. Secondo la WHO i morti di ebola raggiungono quota 1400 in Liberia, un paese dove i medici sono in rapporto di 1:100.000 per un totale di 4.4 milioni di abitanti. Si può quindi comprendere quale grave perdita costituisca il contagio degli operatori sanitari (dei quali solo uno su due sopravvivono). Non si riescono a garantire nemmeno il supporto sanitario per le altre malattie (la malaria ad esempio) né assistenza per le donne in gravidanza.

Alcune riflessioni

Il caso Ducan e tutto quanto finora descritto, invece di condurre la nostra immaginazione su immagini apocalittiche e gettarci nel panico, dovrebbe farci riflettere su condizioni più strutturali del mondo in cui viviamo. È innegabile che il sistema medico degli Stati Uniti ha risolto l’emergenza di Dallas con successo, cioè limitando la crisi, ma ha anche mostrato i limiti tipici della medicina occidentale. La burocratizzazione degli apparati e dei servizi medici portano troppo spesso ad una spersonalizzazione del rapporto medico-paziente e si osserva un sempre maggiore affidamento alla diagnostica strumentale in luogo della diagnosi clinica, nonché di una perdita della visione olistica sulla malattia. Come sarebbe stato trattato Thomas Eric Ducan se il medico avesse avuto il tempo di fermarsi ad ascoltare la sua storia personale alquanto eccezionale? Quanto nella vicenda ha pesato che Ducan fosse appena arrivato negli Stati Uniti e quindi probabilmente non completamente acculturato al sistema di cura statunitense? Pare che il sistema medico volesse velocemente puntare alla guarigione, ma di fatto non aveva tempo per curare il paziente. C’è davvero il tempo necessario per la cura all’interno delle emergenze? Il sistema medico nazionale dei paesi occidentali sembrerebbe avere buone probabilità di successo contro l’ebola grazie al quantitativo di risorse a disposizione, l’efficacia del tracciamento e il protocollo di contenimento. La notizia del primo caso di contagio in Europa arriva ieri sera (06 ottobre 2014) dalla Spagna: un’infermiera dell’ospedale “Carlos III” di Madrid facente parte dello staff che ha prestato assistenza al missionario Manuel García Viejo, rientrato dall’Africa dopo aver contratto il virus e deceduto il 26 settembre. La fonte del contagio non è ancora stata chiarita in quanto in le procedure di sicurezza sembrano esser state seguite passo passo, ma qualcosa dev’essere sfuggito. Nelle prossime ore partirà la macchina della tracciabilità dei contatti, dell’isolamento e monitoraggio dei casi a rischio: ore decisive per valutare la tenuta del sistema spagnolo, e con esso quello europeo naturalmente. L’esperienza di  Rebecca Levine dimostra che l’esportazione di un modello di successo (quello occidentale) non garantisce automaticamente un risultato altrettanto buono nel paese di destinazione. Il sistema deve essere per forza riadattato al contesto e deve saper intelligentemente integrare le conoscenze scientifiche necessarie per far fronte all’emergenza con la cultura della cura locale. I rituali di cura davanti all’ebola falliscono l’obiettivo della guarigione, ma sanno dialogare con il malato e la malattia. Curano quindi, hanno successo proprio là dove spesso il sistema occidentale fallisce. Tentare di eliminare i dispositivi culturali predisposti per dare senso agli eventi traumatici, come appunto la malattia e la morte, porterebbe un grave danno alla comunità. Proprio come stabilito tra gli obiettivi della “Ebola Response Roadmap” per affrontare con successo l’emergenza occorre sollecitare anche una mobilitazione sociale con un coinvolgimento dell’intera comunità nella mitigazione del rischio e nel controllo dei contatti, ascrivendo quindi le pratiche sanitarie all’interno di un patrimonio culturale condiviso localmente. Al termine dell’emergenza infine sarà quanto mai necessario pensare alla ricostruzione spingendo sull’empowerment locale ed in particolare favorendo la formazione del personale sanitario in loco, già prima insufficiente per far fronte alle esigenze di vasti strati di popolazione, ma ora più che mai ridotto ai minimi termini.  L’ultima riflessione è rivolta allo squilibrio di potere e risorse a livello internazionale: un dato di fatto da cui è necessario partire per domandarsi quali possono essere le ragioni per determinare una “global health agenda”, condivisa tra paesi con esigenze e pesi molto diversi. L’Occidente vive l’incubo della violazione della sicurezza, e in questa epidemia è sorto anche il fantasma delle armi biologiche e del bioterrorismo, tanto che la newsletter del Centro Antiterrorismo di West Point ha dovuto dedicare spazio a spiegare perché il virus dell’ebola è difficilmente utilizzabile come arma dalle cellule terroristiche. Il comunicato conclude dicendo che: “L’Ebola evoca immagini di morte dolorosa, ma ad oggi il suo effetto è stato relativamente limitato. L’anno scorso, la malaria ha ucciso più di 627 mila persone nel mondo, e l’influenza uccide annualmente negli Stati uniti tra le 3 e le 49 mila persone. Ma non per questo le due malattie sono considerate potenziali armi biologiche, infatti nonostante i loro alti tassi di infezione, i tassi di mortalità sono bassi e non causano il panico generale”.  Bolla infine come infondati e sensazionalistici i reclami che vedono nell’ebola  un’arma biologica. (link https://www.ctc.usma.edu/posts/ebola-not-an-effective- biological-weapon-for-terrorists) Come ci insegna Freud tuttavia i sogni (e gli incubi) sono una chiave di accesso al nostro inconscio, pertanto questa paura deve essere presa sul serio ed analizzata da svegli, non in quanto realizzabile, ma piuttosto come segnale da interpretare in modo simbolico. La malattia è vista come un’’arma, sinonimo di confusione, paura, panico, guerra e morte. La proposta allora diviene quasi semplice e naturale: perché non considerare la salute come un valore di scambio per la pace? L’approccio internazionale alle politiche della salute si è sempre suddiviso in un approccio statista, concentrato sulla sicurezza e sulle politiche di difesa da un lato, e da un approccio globalista dall’altro, che vede la sicurezza non come un valore intrinseco di per se stesso, ma come il frutto del raggiungimento del benessere e dell’affermazione dei diritti dell’individuo che vede nella salute globale un obiettivo ed una sfida strategica.

Conclusione

Joanne Liu, di Medici Senza Frontiere, nel discorso alle Nazioni Unite del 2 settembre 2014 ha sottolineato che finora “gli Stati si sono sostanziamene uniti in una coalizione dell’inazione”, esortandoli a raccogliere la loro responsabilità per fronteggiare l’emergenza, fornendo le risorse necessarie agli stati colpiti dall’epidemia, “invece di limitare la loro attenzione al potenziale arrivo di un paziente infetto nei loro paesi”. Il rischio che la comunità internazionale privilegi ancora una volta misure protezionistiche dei confine rispetto ad intervento nel cuore del problema per debellare l’emergenza rimane alta, per questioni di convenienza a breve termine. Rimane il dubbio circa l’utilità di tali misure nel lungo termine.  Nelle prossime ore avremo modo di testare la tenuta del sistema sanitario nazionale spagnolo davanti al primo caso critico che rischia di generare il panico nel paese ed in Europa. Anche se la soluzione dell’emergenza rimane ovviamente l’obiettivo primario e prioritario, il mio invito è di ritagliare uno spazio per riflettere sulla definizione che vogliamo dare a termini come “salute”, “cura” e “guarigione”, sia a livello locale sia all’interno dei più vasti rapporti internazionali, perché è su questi che si giocherà una grande parte del nostro benessere e dello sviluppo delle nostre società.

Elisa Grandi, antropologa culturale, nel gennaio 2011 prende parte al Proyecto Snait, iniziativa di sviluppo dal basso focalizzata sui diritti dei bambini presso la Parroquia San Pablo di Agustín Ferrari di Buenos Aires. Questa e altre esperienze sono materia della sua tesi di laurea, “Antropologi in campo”, che analizza la crisi odierna della disciplina antropologica e propone l’approccio dialogico come una delle risposte possibili, avviando una riflessione su come applicare le chiavi di lettura antropologica al di fuori dal contesto accademico.

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