È giusto che Alcesti si sacrifichi per Admeto? Ed è giusto che lui accetti il gesto di lei?
La non-tragedia di Euripide pone ancora dilemmi morali.
Si interrogava, in questo senso, Abraham Yehoshua, in un bellissimo libro di anni fa, dal titolo significativo di “Il potere terribile di una piccola colpa”. Lo scrittore israeliano muoveva dalla constatazione della mancanza di giudizi di valore nelle recensioni. Si può, oggi, valutare un’opera dal punto di vista “morale”?
La domanda mi tornava in mente assistendo al bellissimo allestimento di Alcesti, opera tradotta, adattata e diretta da Massimiliano Civica. L’allestimento, nel suo fulgido e straziante rigore, ha la forza di riportare all’attualità due questioni nodali: quella morale appunto, e quella politica.
Lo spettacolo, in scena fino al 26 nella sala Ottagonale delle Murate, l’ex carcere di Firenze, ha scaldato i cuori dei colleghi critici che hanno scritto ottime e articolate recensioni, analizzando e raccontando al meglio la struttura dello spettacolo. Che è, come caratteristico della ricerca artistica di Civica, di un nitore adamantino, basandosi sulla interpretazione di tre straordinarie attrici – Daria Deflorian, Monica Piseddu, Monica Demuru, tra le migliori attive in Italia per visione, doti, dedizione (cui si aggiunge, in una apparizione certo non secondaria, e diremo perché, la brava Silvia Franco).
Civica torna al rispetto assoluto per l’Autore, in questo caso il tragico Euripide, sfrondando l’allestimento di psicologismi e sentimentalismi, facendo vibrare la parola nuda, scevra da passioni e immedesimazioni. Il lavoro di scavo sul testo si traduce in un tagliente e quanto mai opportuno anti-naturalismo interpretativo: ogni battuta è detta, quasi sussurrata, spogliata da ogni “colore” e arriva con la ferocia della lama di una ghigliottina. L’impianto scenico, anch’esso ridotto al minimo, consta di una pedana-palco, sulla quale sono due candelabri affilati, affiancata da due comodini: qui Deflorian e Piseddu prendono le maschere che calzeranno per interpretare i diversi personaggi, mentre Demuru – seduta, accovacciata, in piedi, comunque fondamentale – si muove tutto attorno, nel ruolo del coro.
I gesti sono lenti, i movimenti calibrati: un cenno della mano diventa esplosivo in questo scabro rituale. Perché, in fondo, di rito si tratta: venti spettatori al massimo, l’imponenza inquietante della sala incistita di dolorose memorie, la scelta di usare maschere e costumi (non riuscitissimi) che evocano mondi “altri”, dalla Commedia dell’Arte al teatro No, danno a questa Alcesti l’aura sacra di un momento assoluto.
Allora tornano e si moltiplicano le domande: è ancora possibile il tragico, oggi? Cosa è la tragedia: quella “Endogonidia” della Societas Raffaello Sanzio, quella che si fa a Siracusa o l’Orestea riletta da Ricci/Forte? Decenni fa, al tempo della sua di Orestea, Luca Ronconi sosteneva che la tragedia oggi è impossibile: non vi sono più valori condivisi, non vi è una comunità coesa. Però l’Alcesti di Civica torna a interrogarci: chi si sacrifica, oggi,? E per chi? Chi darebbe la propria vita addirittura per amore?
Civica, nel millimetrico adattamento, dà spazio a mo’ di prologo la presa di posizione del dio: Admeto è vincolato al volere di Apollo. Non si torna indietro una volta che il dio ha deciso: ineluttabilità del fato. Dunque l’uomo accetta – seppure straziato dal dolore – che la donna muoia: è vera sofferenza la sua? E Alcesti: non è forse una fanatica necrofila (un po’ come Antigone, diciamocelo)?
Perché va così fiera alla morte?
Nella efficacissima traduzione dello stesso Civica – che giustamente non esclude inserti in dialetto e divagazioni “pop” – appare chiaro un latente (ma non troppo) maschilismo euripideo: di fatto, abbiamo introiettato questi testi-mondo, sono fondanti per la nostra civiltà e acquisiamo che sia “naturale” il fatto che la donna si sacrifichi per l’uomo – al di là delle motivazioni. Admeto dunque è il giusto, l’ospite generoso; mentre Alcesti è preoccupata per il suo nome e per il destino dei figli. Come valutare, poi, la feroce dialettica di Admeto con il padre, accusato di non essersi sacrificato per salvare il figlio?
Si tratta, dunque, di giudicare, e di farlo moralmente, i rispettivi atteggiamenti, la tensione tra le hybris. Quella «morale – scriveva Yehoshua – è una scelta individuale, irriducibile in ultima istanza a qualsiasi descrizione di tipo antropologico, storico, filosofico e religioso». Per Civica, mi sembra la scelta di Alcesti sia moralmente accettabile, così come la reazione di Admeto. Parlando del suo lavoro, Civica cita Aldo Capitini – detenuto proprio alle Murate – e la sua fondamentale prospettiva dell’Altro, laddove la propria identità si costituisce solo se e quando si riconosce l’altrui.
Resta, ancora, per quel che riguarda Admeto il dilemma finale: è davvero Alcesti quella che torna dall’Ade grazie a Ercole?
Ecco l’apparizione di Silvia Franco cui si faceva cenno: la donna è velata, «è mia moglie o le assomiglia soltanto?», si chiede Admeto, ma l’accetta in casa. Se ne parlava, tempo fa con il collega critico Antonio Audino, il quale aveva elaborato un acuto pensiero su questo possibile “scambio di persona” (che oltretutto concretizza l’avvento del terzo attore che cambiò le regole della tragedia attica). Se non è lei, il re tradisce subito il giuramento fatto alla moglie. Ma se pure fosse lei, cosa accadrebbe dopo? Come si vivrà, in quella casa?
La splendida soluzione escogitata da Civica per il finale – una canzone di Lucio Dalla resa struggente da Monica Demuru – tira le somme: «Io credo che il dolore/ è il dolore che ci cambierà/ io credo che l’amore/ è l’amore che ci salverà». Il dolore ci cambia, l’amore ci salva: sembra facile, ma, di questi tempi, suona davvero rivoluzionario.
Sono salvi per amore, i due protagonisti di questa che si svela una non-tragedia. Eppure la “tragedia” svolge ancora il suo compito e sembra ancora possibile sulle scene di oggi. Non vi è catarsi, in questo piccolo rito, ma vi è spazio per una civile e laica interrogazione.
Un’ultima considerazione politica, ovvero di sistema. Massimiliano Civica, contando sulla straordinaria forza delle sue attrici, ha scelto un teatro “appartato”, altro, rispetto ai circuiti ufficiali. Uno spazio non convenzionale, una prospettiva dichiaratamente anti-economica (venti spettatori massimo a sera) che certo non dà risposta alle esigenze “imprenditoriali” – fatte di numeri, incassi, formule matematiche – con cui si sta cambiando il sistema teatro italiano. Lo spettacolo, prodotto coraggiosamente da Atto Due e Fondazione Pontedera Teatro, apre dunque ulteriori motivi di riflessione. Alla luce di questa prospettiva, operazioni coraggiose, libere, intelligenti come quelle di Civica che fine faranno?