La City dei TartariL’uomo con l’accendino

La sala dell’Atelier, il luogo storico dei concerti a Lussemburgo, e’ stracolma, strapiena. Il palco e’ in un angolo, come un triangolo, un cavalierino dei documenti per avvocati. Attorno, centin...

La sala dell’Atelier, il luogo storico dei concerti a Lussemburgo, e’ stracolma, strapiena. Il palco e’ in un angolo, come un triangolo, un cavalierino dei documenti per avvocati. Attorno, centinaia di persone, come una corona di spine e rose attorno ad un luogo di un sacrificio umano. Un concerto, perlappunto. Di De Gregori. La mia amica Giorgia fa le foto alle persone attorno, a questo coacervo di Italia fuori dall’Italia, banchieri, operai, commessi, famiglie, studenti, uno spaccato del paese e di persone che portano la loro croce ogni giorno, una croce, un supplizio di cose da fare e di quella nostalgia che attanaglia chi, nato sotto al sole mediterraneo, si osserva attorno, che sia Londra, che sia la Mittel Europa o le coste del Cile, e si accontenta dei mondi diversi in cui deve vivere, perche’, spesso, insegue sogni e speranze che sa non essere adeguate al Bel Paese. Ma gli italiani all’estero, soprattutto quelli che sono fuori da decenni, gli italiani di seconda generazione, sono uno spettacolo unico, perche’ trasformano e continuano a trasformare il mondo attorno, come facevano i nostri nonni con le terrazze a mare degli uliveti, pietra per pietra e  pianta per pianta. Sono gli italiani che si ricordano Zaccagnini, sono quei tre vecchietti arzilli che, spesso, si siedono su una panchina di Kirschberg, la zona delle banche e dei fondi di investimento, con un boccione di vino e bevono e prlano, parlano e bevono, finche’ non viene la sera. Li sento, ogni tanto, discutono su come potare gli olivi, di che fine abbia fatto la Carra’ e parlano sempre dei figli, dei nipoti, di quei mondi nuovi che hanno contribuito a costruire, mai con un riconoscimento in patria, o nella vecchia patria.

Durante il concerto, mi osservo in giro, vedo i colleghi della finanza accanto a signore attempate che portano la loro eta’ con dignita’ ma non in maniera fulgida come il buon Greg, che sembra sempre piu’ un protagonista di un film di Leone, un musico tex mex che racconta l’Italia di appena ieri, quell’Italia che osserva tutto questo rottamare, distruggere, cambiare, con una forma di ironico distacco e di attesa, di indugio. Greg appartiene alla generazione di quelli oggi condannati all’epurazione, alle missioni in Africa, come il Veltroni di Vai in Africa Celestino, quelli italiani che associano Paolo de La Leva Calcistica a tutti quei loro tentativi di vincere le battaglie e non accontentarsi di sapere che un giorno vinceremo la guerra, che alla fine il bene vince sempre e che qualche segno di giustizia divina evincera’ i giusti dai gaglioffi, i bravi dai furbi. Sono passate le generazioni, sono passati decenni, da quando, a 23 anni, De Gregori cantava le sue storie di una Roma maliarda e pariolina, di vite pronte al balzo. Siamo passati tutti, ci siamo accontentati e chinati di fronte a vari altari, o quasi tutti, o quasi sempre. Perche’, alla fine, se l’Italia produce emigrati come un paese in grave crisi economica e sociale, se ci sono piu’ Italiani all’estero che nel paese, se siamo ancora qui ad alzare la mano ed a cantare a squarciagola Mayday (‘la direzione nuova la devi scegliere tu’) e’ perche’, in fondo, sappiamo che potremo fidarci e contare solo sulle nostre forze, sulle nostre energie. Soprattutto se in quelle generazioni di mezzo ormai condannate a non contare nulla, a non poter cambiare il paese, dato che i fattori determinanti non sono, ancora una volta, la competenza e le idee, la bravura, ma l’affiliazione, o il giovanilismo depilato e reso rubicondo da crème, cure estetiche e giri di valzer nel gran ballo del potere.

De Gregori, alla fine del concerto, e’ assediato dalle persone, dai volti, belli, sbuffanti e beffardi, di questa Italia lussemburghese, di questo paese che, nel micro, non si arrende, ma che, nel macro, non riesce a trovare piu’ il bandolo della matassa. O, forse, non ha piu’ neanche in mano il gomitolo. Un gatto sornione pieno di parole giuste se l’e’ portato via. Come la musica di De Gregori, che finisce, si esaurisce in un applauso corale, commovente, ma che, alla fine, come tutte le rivoluzioni volute, disperatamente implorate da questa Italia fuori che ama l’Italia dentro, svanisce nell’aria di una notte novembrina. Ed e’ in quella ultima fottuta canzone che un signore tira fuori un accendino e comincia ad ondeggiarlo, in mezzo alle luci fastidiose di ipad ed iphone usati per catturare un ricordo sbiadito e rumoroso di una serata inconcludente e romantica, come la musica di De Gregori. L’accendino si muove ed oscilla per quasi tutta la fine del concerto, come un time warp, un momento vintage, di quando ai concerti non si cantavano certe parole come ricordo di un periodo in cui tutto poteva cambiare, ma come azione politica, come determinazione di una direzione in cui si voleva, si chiedeva, alle cose di andare. Urka, la canzone di protesta, gli Inti Illimani e le proteste in piazza, contro governi che non riuscivano piu’ a capire il paese, contro istituzioni che faticavano a correre ai ritmi dei tempi. Oggi, l’innovazione e’ un mantra, una specie di parola ripetuta a casaccio, come si ripete storyteller, ghostwriter, digital champion, startupper, etc. Ripetiamo le parole nuove, concetti nuovi, ma rimaniamo sempre li’ con il cerino in mano, della modernita’ che non si fa afferrare, perche’, grazie a Dio, di fronte al futuro, ad un desiderio di una societa’ piu’ giusta e di una speranza che sia socialmente ed economicamente condivisa, rimaniamo quelli con l’accendino in mano, la canzone che esce a spizzichi e bocconi dalle labbra, e la provola in valigia quando si vanno a trovare gli amici dispersi nel mondo. Ed allora, ben venga la versione di The Future di Leonard Cohen, tradotta da Locasciulli. Ben venga quel senso di aver perso un’occasione storica, perche’ solo da quella impressione si puo’ far espandere quel fuoco fatuo dell’accendino, in qualcosa di molto piu’ grande.

 “A volte, si vive in un sogno di cambiamento e ci si crede. Ci sono persone che ho incontrato ed amato nei sogni vividi delle notti lunghe di inverno, ci sono persone che rivedo e con cui parlo mentre dormo, persone a me care, scomparse tutte troppo presto, spesso per altri lidi, sempre piu’ spesso per una dimensione a cui tutti apparterremo un giorno. Mii mancano, mi mancano quei frammenti di realta’ onirica, ed e’ un problema, caro mio Orazio, quando sei affascinato da persone che incontri in una qualche dimensione parallela, perche’ ancora non abbiamo l’indirizzo e li’, bonta’ loro, non esistono ancora gli smartphones” K.J. Okker – Grasp/Gasp/Gap

(Dedicato a tutti quegli amici e parenti che sono Italiani e fieri di esserlo in giro per il pianeta, dalla mia famiglia anglotoscana di Sonia, Bianca e Carla, a mia cugina Carlotta ed alla mia amica Stefania in Australia, fino al mio amico Federico che ha deciso di emigrare a San Marino, che da li’, dice, si vede l’Italia, ma si sente un pelo piu’ libero ed ad Andrea, che vive in una sua repubblica felice e serena fra libri, stampe e fogli su cui scrivere finalmente la sua storia. Ed a Giorgia, nel suo Dafaz Tour per Lussemburgo, che si commuove ancora a La Leva Calcistica, perche’, secondo me, sta dalla parte del pallone, come tutti noi).

Soundtrack

Francesco De Gregori – Vai in Africa, Celestino

https://www.youtube.com/watch?v=atEGw9bg49M

Francesco De Gregori – May Day

https://www.youtube.com/watch?v=GCDAX6EtikI

Mimmo Locasciulli – Il Futuro

 https://www.youtube.com/watch?v=onEd74o7b2o

X