La City dei TartariLa fuga dentro (Storie Natalgiche dalla dorsale tirrenica del paese – Parte 2)

Chi conosce l’Italia sa che deve perdersi per scoprirla. Succede a Firenze, a Venezia, dove si trovano gioielli di arte e viste mozzafiato appena si esce dai percorsi soliti, o, perlomeno, ci si cr...

Chi conosce l’Italia sa che deve perdersi per scoprirla. Succede a Firenze, a Venezia, dove si trovano gioielli di arte e viste mozzafiato appena si esce dai percorsi soliti, o, perlomeno, ci si crea una mappatura che si estende al di fuori delle assi verticali ed orizzontali della grande comunicazione e del modo piu’ veloce di andare da A a B. Bisogna salire in collina, prendere una delle strade che salgono verso le montagne che abbondano sempre in lontananza, salire le erte e sedersi sui gradoni divelti da erbacce e dall’incuria dei secoli. Comunque, l’Italia, per chi vuole ritrovarla, non abita piu’ lungo le strade, ma sulle parti apicali di colline aguzze, sopra le rocce, dietro le valli che si incuneano, nei vicoli, nelle calli, nei labirinti urbani delle periferie degli anni ’30. Il paese vero, quello che ancora resiste, spesso, ha preso questa decisione cosciente di nascondersi al ‘mainstream’, alla pervasiva insistenza dei tempi veloci, al loro ritmo imposto. Esiste un’Italia millenaria che si nasconde e vive nelle pieghe di un altro paese esposto e corrotto al secolo del tutto subito, della ricerca di profitto prima ancora che una ricerca di senso, quella coscienza di essere inseriti in un piano che, forse, non si puo’ definire divino, ma, sicuramente, di lungo periodo. E’ l’Italia delle terrazzature delle olivete e dei vigneti, dei muretti piu’ o meno a secco che contengono la terra fertile e permettono, hanno permesso per secoli, ai signori in fondo valle di godersi olio e vino nuovi. Quell’Italia che descrivo a mia figlia, complici giornate invernali dal cielo lindo e cristallino. Le indico le linee regolari di ulivi, ogni nodo, ogni foglia accarezzati da qualche contadino geloso delle drupe ed attento al loro benessere, che sia acqua in estate aride o paglia in inverni umidi e freddi, quella cura che nasce da un remix di interesse personale e di attenzione al futuro. Le terrazzature, ovunque nel paese, sono segni di quell’altra Italia che non appare e non vuole inserirsi nella modernita’ vacua, ma che ancora sa cosa vale e cosa e’ importante per un futuro futuribile, “ed una pizza al sabato sera con gli amici”.

L’Italia ha un ritmo interno che discende dalla saggezza contadina e popolare, dalla storia locale, da come quello che accade nelle vicinanze diventi motivo di vanto, scherno, appartenenza. Accade che queste storie escano fuori, da ogni spazio, da ogni casa, da ogni valle in cui qualcuno si avventuri ed abbia il tempo, la pazienza di chiedere. Un paese che si racconta e’ un paese che ancora non muore e questo accade con la metrica involontaria delle parole delle persone, delle loro storie di dolore e di riscoperta di un’umanita’ vera, semplice, meno esigente. Che non tutti sono nati per creare una nuova application milionaria, per governare regioni, o per vivere fra l’italiano, l’inglese ed una spruzzata di francese. Il ritmo delle giornate, quello del vento fra le foglie o fra le persiane di casa.

La saggezza popolare odia, in fondo, i bugiardi, i beceri, i fanfaroni, i rivoluzionari a parole, perche’, alla fine, e’ il popolo a far partire i soldati, a pagare il dazio, a limitarsi nei consumi e a dover inventare nuove indipendenze dal chiasso a valle.

Altre storie si materializzano, come se esistesse un copione dove gli spunti offerti da persone ed eventi fino ad ora ignoti, nel cammino, impongano una revisione della mia idea del mondo. A cui reagire, sicuramente, da amare come drupe di olivo.

3. Il cammino di Rigutinelli

Ci dicono alcuni amici che, in cima ad una strada a destra della provinciale fra Arezzo e Cortona, ci sia una fattoria dove sono allevati animali del bosco, daini, cervi, assieme ad animali domestici come capre, asini e papere, le nane dell’aretino. Con bimbe e moglie, in una giornata di sole stupenda e tersa, in cui sembra di toccare il monte Amiata, cominciamo a salire. E, quella che ci era stata descritta come una localita’ a pochi metri dalla strada principale e’ una specie di eremo in cima ad una montagna, dove arrivano venti incontrollati e non filtrati dal caldo residuo della Val di Chiana, direttamente dalla dorsale appenninica. Un rifugio che sembra abbandonato ma che scopriamo pieno di persone intente a mangiare, attorno a tavolate di parenti ed amici, nel giorno dopo Santo Stefano. I pini muggiscono per le folate di vento e, a poche decine di metri dalla costruzione si vedono le gabbie degli animali. Intravediamo un cervo con un palco stupendo, le caprette che accorrono ad ogni parvenza di persona che si avvicini. E, nel rifugio, ci accoglie il calore del riscaldamento e dei gestori, una famiglia di Firenze che ha preso la decisione di lasciare tutto e di provare a gestire quel luogo insolito ed aspro. Madre e due figli di trenta anni. Fanno tutto loro, dalla cucina alla gestione degli animali. Con un amore che si sente attorno a loro e si sente nel cibo, ottimo. Al momento di pagare, ci domandiamo, come accade in posti isolati, cosa ci ha portato rispettivamente lassu’. Noi siamo i turisti da un altroquando che si chiama Londra, mentre loro sono i novizi della montagna. Uno dei figli ci rivela di essere stato molto malato, di aver perso il lavoro e, cosi’, hanno preso quella decisione insieme, mi immagino, in una di quelle cucine delle periferie italiane con la luce al neon. Fogli sul tavolo, conti, poche parole e molti sguardi. E sono partiti per quella ‘fuga verso il dentro’ del paese, in cima ai colli. E il ragazzo uomo mi racconta che per mesi ha camminato a piedi, da Rigutino alla baita, che sono vari chilometri in salita, mentre finiva la sua terapia intensiva. Chilometri senza ricezione per il cellulare, ‘viste stupende, incredibili, anche con la pioggia o la nebbia e tanto tempo per pensare’. Karma ricostruito passo dopo passo. Assieme ad un’aura di umanita’ talmente forte da sconfiggere la malattia. ‘Ora sono forte’, ci dice.

Ora siamo piu’ forti anche noi. Come accade ogni volta qualcuno ci ricorda che esiste un tempo per l’azione ed uno per meditare, esistono i tempi delle parole che escono dalla bocca e quei tempi in cui il silenzio appiana le divergenze interne ed in cui tutto appare piu’ facile, perche’ riassimilato ai tempi della natura. Con le bambine andiamo a rincorrere anatre ed a tediare asini e caprette con fili d’erba con un cuore leggero come una piuma. E mentre torniamo ci fermiamo a guardare il colore del sole di inverno che indora gli olive. Come un primo esploratore avrebbe fatto, appena arrivato da un altro pianeta. Se gli alieni atterrassero qui, penso, avrebbero la certezza di un popolo civile e buono.  

[to be continued]

“Stop down the road, where the sun hits your face. Be safe, don’t stay in the middle of the road. If you are blinded by the light, so anybody else may be. Now, open up your hands and lift them high into the sky. Close your eyes, sense the energy, your energy, your strength, collecting all the power around, like a friggin’ magnet, like some kind of collector. Feel it through your veins, breath. Now, go back to living your day. You are healed, till the next time you need to be healed – it could be tomorrow, it could have been yesterday. Welcome to Continuum times” KJ Okker ‘Life as Energy (and it is not a drink you buy or mix)’

SOUNDTRACK – Strand of Oaks – Shut In

https://www.youtube.com/watch?v=j2Kmch5w0WA

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