‘Noi non apparteniamo a quelli che hanno idee solo fra i libri, quando stimolati dai libri stessi’ F.Nietzsche
L’Italia è un fascio di strade da nord a sud, in verticale, e, raramente, da ovest verso est, una specie di lunga quinta teatrale che guarda da un lato verso il Tirreno blu scuro degli abissi mediterranei e dall’altro il diafano Adriatico, che osserva le montagne balcaniche, e, oltre, verso le steppe rumene. Un paese come un teatro, dove si inscena una continua rappresentazione del realizzabile dentro l’impossibile, una specie di plancia dove entrano attori melliflui o ieratici, uno per uno, in cori, in gruppi, in ganghe di ripetitivi guitti e, spesso, in assoli e monologhi di geniali anime, prestate ad altri lavori dall’arte oratoria e della recitazione.
L’Italia è il paese dove ognuno è presidente della sua Repubblica, dove, invece che i muretti a secco, abbiamo sviluppato, nei secoli, delle specie di enclosures psicologiche, delle demarcazioni interne, in una necessaria e continua limatura fra lo spazio personale e di quello pubblico. Nell’apparenza di un caos creativo ed una versatilitá estrema, sappiamo bene quale sia la linea di confine ci sia fra l’andito ed il salotto delle nostre case, quella dogana dove si negozia l’ingresso, che sia una nuova conoscenza, od un uomo delle tasse.
Ognuno, una repubblica in casa sua, un legislatore ed un ente regolamentare, dove si centellina il rapporto con l’esterno. Questo spiega come mai cosi’ tanto accada in piazza, in questa dicotomia fra vita pubblica e privata, e come mai la maldicenza ed il chiacchericcio siano i meccanismi di trasmissione di informazioni, ovviamente in una distorsione che stordice al punto di non saper piu’ cosa sia vero o cosa sia sentito dire. L’effetto di questa storpiatura e’ che l’Italiano del tinello non e’ quello delle vasche in centro e non assomiglia per niente a quello del salotto o della camera da letto. La diffidenza ed il senso di voler mantenere un proprio cuneo, un angolo di libertá, fanno da contrappunto ad un paese che ha sperimentato forme derivative di democrazia, rese inefficaci nella continua intermediazione dei tanti livelli di gestione del potere, delle politiche e della societa’, fra chiesa, stato, province, comuni, associazioni, sindacati, consorzi montani, obbligatori, amministrazioni condominiali. Il potere al di fuori dei muri di casa talmente caotico e parcellizzato, ergo impossibile da controllare, con la conseguenza che dentro casa si entra in uno stato irridento e irrisorio del controllo della propria vita e delle proprie speranze, ma rimane spazio proprio, personale.
Allora, per questa fine di un anno che poteva essere tutto, ed e’ ancora sospeso, fra commissioni parlamentari e incertezze del futuro, alcune storie minime raccolte nelle mie giornate toscane, nei luoghi che mi hanno regalato il DNA e quel senso imprescindibile che esista sempre una finestra da cui guardare ed osservare il mondo dall’alto, da una torre, una collina, da sopra una quercia millenaria, nodosa ed accogliente. Storie minime che raccontino di piccoli germi di bello o di assurdo, perche’ solo il surreale e l’uscire da quelle strade segnate da nord a sud e viceversa ci fanno spesso scoprire un paese diverso, da amare ancora.
L’Italia e’ un posto perfetto per pellegrini e per monaci stiliti, per chi passa, ne sfiora le mille frontiere e le pietre, e per chi decide di andare in fondo alla questione. Ed ecco, allora, queste piccole storie minime, che sono rimbalzate ai miei piedi, che mi sono trovato di fronte, come doni improvvisi, storie che raccontano la grande assente dal dibattito politico e sociale di questi anni: la profondita’ di azione e di giudizio, un paese di pellegrini ed esuli, di eventi miracolosi e di piccole ossessioni che decoarno I giorni. Un’introduzione ad un’altra storia da raccontare, per quando ci sara’ tempo per declinarla correttamente, scientificamente, per quando ci sará voglia di farsi nuovi nemici od amici. I secondi possono passare dal tinello ed entrare nel salotto.
SOUNDTRACK : Lizst, Annes de pilgrimage – https://www.youtube.com/watch?v=Aj2gFk0FoKo
#1 – Il cancello nero
Ho visto il mio vicino di casa invecchiare, nel rito giornaliero di uscire dalla sua villetta sempre perfettamente imbiancata e pulita, con le aiuole tenute a trifogli minuscoli e ghiaino intonso e lucente, e controllare che la sua inferriata fosse sempre perfettamente dipinta. Esce di casa di solito dopo pranzo, sempre la solita ora, o, perlomeno, è quello che mi suggerisce l’evidenza statistica. Quando sono a Firenze, che sia in terrazza od alla finestra, che sia inverno o che sia estate, lo vedo uscire, come un rituale oscuro. Ed io lo osservo, con la mia tazzina di caffe’ post-prandeale in mano, che lascio raffreddare quanto basta per non ustionarmi, ma per sentire il kick, la botta della caffeina calda che colpisce il palato e ricolloca i neuroni in linee e reti funzionali a resistere la lenta inedia da cibo, in quantita’, qualita’ e condimenti, a cui non sono piu’ abituato.
Il vicino esita sempre un attimo, come se sospettasse di essere spiato, con le ciabatte del Postal Market ai piedi ed un secchiello di vernice nera ed un pennello da decoratore della Richard Ginori fra le mani. Scruta quello che ha attorno, non alza lo sguardo, senno’ mi vedrebbe subito, con un mio sorriso surrealmente sereno, come se finalmente, nella mia osservazione del libro che chiamamo realta’, fossi un etologo di fronte ad un animale raro, appena fuori dalla sua tana. Il vicino non crede che ci possano essere curiosi ai piani alti, o, forse, è un passo avanti e sa che ormai niente ci stupisce piu, nulla attira l’attenzione, se non per poco tempo. Si osservano le anomalie nel campo visivo, ma non si esplorano piu, come un trompe l’oeil con fagiani e panorami inesistenti. Il vicino, ignaro di essere fenomeno da studiare, osserva le inferriate della casa da vicino, le scruta e le tocca con le mani, per verificare che la vernice, ormai stesa in innumerevoli mani, sia solida, non si sfaldi in mano. Siede sul muretto, circumnaviga le siepi di biancospino perfettamente ritoccate e sfrondate quando e come necessario, e comincia a ritoccare con puntatine e colpi di pennello, con movimenti ora veloci, ora lenti e lussuriosi, dove la vernice abbia lasciato intravedere anche una promessa di ruggine, un ribollire del pigmento. Come risultato, la barriera di metallo che circonda la sua casa di pura edilizia anni ’50, una di quelle cassette con due o tre piani dalle finestre con gli architravi in pietra serena, e quell’odore di collezioni di Readers’ Digest che macera senza che nessuno abbia mai letto anche un solo articolo, resiste, si ostina a rimanere pura e immune dalla corruzione dell’ossidazione e della ruggine.
Il vicino, una volta che ha terminato il ritocco, si ferma, si siede su un panchetto di pietra e, sicuramente, medita, pensa a cosa potrebbe accadere quando un giorno sara’ tutto troppo faticoso e non ci sará nessuno ad occuparsi di casa sua, del giardino e di quella inferriata nera di cui va tanto orgoglioso. Quel signore timido e quieto si pone il problema di come fare, come permettere a quel senso di protezione, magari semplice, ma efficace, di poter continuare. Sa che molta della sua vita e’, nonostante tutto, quel lavoro seriale, come forse seriale senza voli di fantasia era il suo lavoro prima della pensione. Ma lui sa che la cosa piu’ importante e’ continuare a mantenere in allerta quel senso di limite, di sfera privata, il mondo dentro le mura di casa, dentro lo spazio delimitato dalle inferriate perfette, intonse, dense come un quadro di Rothko. E quello spazio va non solo difeso, ma salvaguardato, arricchito, mantenuto pulito, ordinato, appropriato alle persone che ci vivono dentro. Intorno a casa sua, tutto potrebbe accadere, strade sconnesse, incuria, incivilta’ di graffiti ed escrementi di cane sul marciapiede, ma quello che conta è partire dal proprio mondo, da quello spazio che si puo’ controllare, i famosi trenta o quaranta, o forse cento, metri quadri attorno a se. Il futuro e’ una ruggine, pulviscolo, il degrado dei giorni che passano e nei quali la distanza fra il mondo di casa, dentro le inferriate, dentro la cancellata, e tutto quello che accade fuori, si espanda, diventi insostenibile, come una differenza di pressione fra un palloncino e l’atmosfera fuori, fino all’implosione. A meno che qualcosa non accada e ridiriga quella furia calma meticolosa a qualche forma di bene comune o venga offerto un paese che non abbia piu’ bisogno di inferriate, cancelli e ostacoli fra il sancta sanctorum domestico ed un mondo post-industriale ostile e pieno di mostri leggendari.
Soundtrack – The Kissaway Trail – Sometimes I am always black
https://www.youtube.com/watch?v=y12OQVyMwNk
#2 – Il Pompelmo di Firenze
Mia suocera prende un pompelmo da una fruttiera dove trionfano le mele del Casentino e della val di Chiana. Lo apre e me lo porge, per farmi sentire il profumo. ‘Viene da Firenze’, mi dice. Ed io le rispondo ‘Dal mercato?’ e lei, ‘no, proprio da Firenze, da una pianta cresciuta in un condominio del Campo di Marte, dove abitano alcuni amici’. E mi racconta questa storia surreale di una pianta di pompelmo, una specie comune in terre molto piu’ miti, climaticamente, se non politicamente, in Sud Africa, Israele, nata per caso o per un disegno caotico divino, da un seme, magari sputato da qualcuno, fuoriuscito da un sacco della spazzatura. Tengo il pompelmo in mano e ne vedo la storia, l’altra mano di qualcuno che, in un clima subtropicale, ne coglie uno e lo mette in una cesta e poi, fra cargo e navi, il frutto finisce magari dimenticato in una cucina di Firenze. Ed alla fine viene consumato per una spremuta, con I semi che finiscono nell’umido. E poi nella terra accanto ad un garage, dentro un giardino condominiale, magari non ben curato, dove l’erba viene fatta crescere. E quel germoglio di pompelmo continua a crescere, diventa un protoalbero. Fino a quando arriva un giardiniere, dopo che una qualche assemblea condominiale abbia finalmente trovato un preventivo giusto per quel lavoro, per ridare un attimo di lustro al giardino, che dopo magari ci sono bambini e nipoti che vogliono scorrazzare e magari ci sono vetri, siringhe, sassi.
Allora, vedo il giardiniere che comincia a tagliare l’erba e nota il piccolo pompelmo, ancora minuscolo, ma gia’ una pianta in se’, gia’ con tutte le caratteristiche della specie. Ed il giardiniere, con la sua laurea in scienze botaniche, decide di tenerlo, di farlo sopravvivere, pensando che tanto non ce la fara’ nell’inverno fiorentino, con i suoi sbalzi di umore. Invece, anno dopo anno, con qualche cura aggiuntiva, il pompelmo sopravvive, cresce, diventa una pianta enorme, alta sei, sette metri e comincia a regalare raccolti di pompelmi sempre piu’ generosi, come un ringraziamento a quel gesto di fiducia e di speranza fertile. Funziona sempre cosí, la novitá va riconosciuta ed aiutata, il talento e’ ovunque, come un seme pronto a sbocciare, a diventare altro da quelle foglie piccole e fragili. Ci vuole l’occhio esperto, e ci vogliono tenacia, cura, attenzione, ci vuole qualcuno che riconosca e che capisca cosa vale la pena mantenere e cosa vale la pena eliminare. Sono rischi da correre, lasciare il pompelmo o metterci un ennesimo cipresso, innovare, vedere oltre, anche le leggi del clima e della probabilita’. Un paese che ha bisogno di giardinieri coraggiosi e che abbiano la capacita’ di avere cura nel tempo, di non essere impazienti, e di accettare che qualcosa potrebbe andare storto. Intanto, apro il pompelmo e mi faccio inebriare dal suo odore assieme amaro e dolce. Il segreto di questo agrume, il segreto delle scelte profonde, dei ritorni o delle migrazioni astruse che sono il vero motore della vita, un pompelmo made in Florence, che e’, per un meccanismo di nessi e casualita’, tornato a casa molto prima di me.
SOUNDTRACK – Giorgio Canali – Altrove (cover Virginiana Miller)
https://www.youtube.com/watch?v=TGjMMCw72a0
“Ho paura di non aver paura, nel momento del non ritorno, del distacco finale, da queste terre, dai vostri volti, da queste colline disegnate attorno a strade sinuose. Ho paura di non avere una posizione chiara, sono terrorizzato dal non poter esprimere le mie idee liberamente, di dover seguire contratti e regole che non ho scritto e voluto io. Una paura folle, caro amico, di non poter onorare ogni scelta con una stilla di sangue, con un impegno che sia sovrumano, irriducibile. Non so accontentarmi e quando lo faccio ne sto male. Soprattutto perche’ vedo questa massa di bischeri prendere posizione ai confini della decenza. Dove un tempo siedevano e vigilavano uomini di granite, ci ritroviamo simulacri di coscienze, dove un tempo non potevamo permetterci errori, ora vigono regole di gestione di tempo sprecato che diventa tempo negato’
KJ Okker – Negare/Dimenticare