ABC. A-Always, B-Be, C-ClosingSocial housing: un’occasione persa o ancora da cogliere?

Social housing è un termine che sempre più spesso, specie negli ultimi anni di crisi, ha assunto un nuovo significato, sia sotto un’ottica di investimento, sia in un’ottica di gestione abitativa c...

Social housing è un termine che sempre più spesso, specie negli ultimi anni di crisi, ha assunto un nuovo significato, sia sotto un’ottica di investimento, sia in un’ottica di gestione abitativa che di welfare sociale, tema quest’ultimo poco dibattuto da questo punto di vista. Tuttavia, come altre iniziative rischia di non trovare una completa e organica diffusione, e di essere l’ennesima occasione persa.

Partendo dall’inizio, il social housing si può collocare a metà strada tra l’edilizia popolare e le proprietà private vendute o affittate a prezzo di mercato. L’obbiettivo principale di questa edilizia sociale è fornire alloggi con buoni o ottimi standard di qualità, a canone calmierato, che non superi il 25%-30% dello stipendio.

Ecco quindi che il social housing si rivolge a famiglie o coppie del ceto medio (o ex, a seconda della lettura che si vuole dare ai dati di Bankitalia in primis, ndr), che non possono permettersi una casa a prezzo di mercato, ma che hanno un reddito troppo alto per accedere all’edilizia popolare. In generale quindi famiglie di lavoratori non assunti a tempo indeterminato, studenti e immigrati. Il social housing riguarda prevalentemente case in affitto permanente che vengono assegnate agli aventi diritto per un periodo di normale locazione residenziale (4+4 anni). E qui entriamo nel primo aspetto della questione: quello economico-finanziario.

Nel febbraio 2009 venne creata la Cassa Depositi e Prestiti Investimenti SGR, partecipata da Cassa Depositi e Prestiti per una quota di maggioranza del 70% e dall’ACRI e dall’ABI per una quota del 15% ciascuna, e nel 2010 lanciò il “Fondo Investimenti per l’Abitare” con una dotazione di circa 2 miliardi (uno di questi sottoscritto da Cassa depositi e prestiti, 140 milioni dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e 888 milioni da parte di gruppi bancari e assicurativi e di casse di previdenza privata) da “investire nel settore dell’edilizia privata sociale per incrementare sul territorio italiano l’offerta di alloggi sociali per la locazione a canone calmierato e la vendita a prezzi convenzionati, a supporto e integrazione delle politiche di settore dello stato e degli enti locali. L’obiettivo era ed è realizzare case a costi accessibili, destinate alle famiglie non in grado di soddisfare sul mercato le proprie esigenze abitative, ma con redditi superiori a quelli che danno diritto alle assegnazioni dell’edilizia residenziale pubblica”.

Rispetto a tre anni fa, quando avevo già trattato brevemente il tema la CDPI Sgr, per conto del FIA, ha assunto, così come evidenziato nell’ultima relazione semestrale del fondo al 30 giugno 2014 ripresa da ItaliaOggi, 55 iniziative – tra quelle in cantiere, o già completate – che prevedono complessivamente la realizzazione di circa 3.820 alloggi e di circa 1.270 posti letto in residenze temporanee o studentesche. Gli alloggi completati sono 1.439, di cui 1.061 assegnati (pari all’88%): 768 in locazione a lungo termine, 136 in locazione con l’opzione di acquisto, 157 in vendita convenzionata. Gli alloggi in corso di realizzazione sono circa 1.620 e quelli in fase di avvio 1.054.

Sono numeri sufficienti? A ben vedere no, dato che nei primissimi giorni del 2015 era scattata la protesta di tantissimi enti locali, con capofila le città di Roma, Milano e Napoli che chiedevano al governo di prorogare il blocco degli sfratti e di scongiurare il rischio sfratto per 30-50mila famiglie in tutta Italia, segno questo di una inequivocabile sofferenza di sempre più nuclei famigliari e della necessità di un numero sempre crescente di alloggi “a canone sociale”. E qui entrano in gioco gli altri due aspetti, quello sociale di politica abitativa, e quello ancora poco evidente del welfare.

Per quanto riguarda la politica abitativa l’obiettivo di un progetto di social housing (ben studiato) è di offrire alloggi di qualità e di dimensioni adeguate a costi ragionevoli, ponendo particolare attenzione alla qualità degli alloggi stessi e dell’ambiente circostante, anche nell’ottica dell’evoluzione delle esigenze della popolazione a medio termine e delle esigenze specifiche di alcuni gruppi svantaggiati, quali disoccupati, disabili, anziani, immigrati e senzatetto. L’obiettivo ultimo è di far nascere comunità e sviluppare l’integrazione, destinando spazi e servizi comuni ad uso esclusivo degli abitanti gestiti dagli abitanti stessi attraverso associazioni costituite ad hoc (di norma, infatti far parte di queste associazioni è condizione indispensabile per poter accedere agli alloggi).

Ma questo aspetto nasconde anche un nuovo tipo di welfare, di comunità. E di una collaborazione tra pubblico e privato. Difatti con l’indubbio aumento del numero di persone anziane nei prossimi anni e decenni, e col sistema sanitario messo di conseguenza sotto pressione, l’obiettivo del social housing, oltre a quello di fare e creare comunità, è quello di dar vita ad un “nuovo” modo di vivere determinati quartieri della città abbinando il sostegno delle famiglie nella gestione a domicilio delle persone anziane o disabili e nell’accompagnamento alla vita adulta di adolescenti e giovani, con particolare attenzione al fenomeno dei neet (ragazzi che non studiano né lavorano).

Il sostegno ad anziani e disabili non autosufficienti si potrebbe concretizzare nella costituzione di una rete di vicinato che va dalle relazioni di condominio e di quartiere, ai servizi domiciliari e sanitari, fino ad investimenti tecnologici su sistemi domotici: sono diversi ad esempio i progetti in fase di avvio di “badante di quartiere”, ovvero una sola badante che tramite sistemi domotici possa occuparsi contemporaneamente di più anziani. Per i giovani, senza lavoro e che non studiano, tutto ciò viene realizzato con attività pre-lavorative come la manutenzione degli immobili, o dei beni pubblici, per la gestione del territorio e del quartiere.

Lo scopo è dunque quello di passare da una presa in carico delle singole famiglie, ma anche dello Stato, a una presa in carico comunitaria.

L’Italia da questo punto di vista è ancora abbastanza indietro rispetto agli altri Paesi europei, e questo significa che c’è molto da fare, ma al contempo che i margini di crescita sono ampi per tutte le componenti, anche se occorre in primis disboscare il sistema di leggi, regolamenti e codicilli che cambiano di regione in regione, e di comune in comune. Purtroppo per un Paese come il nostro, pieno di regole, molto spesso questo significa non avere alcuna regola, ed ecco che un serio progetto nazionale di social housing potrebbe risolvere diversi problemi: riqualificare edifici e quartieri delle città (componente immobiliare ed economica), ripartire con una nuova politica abitativa a favore dei giovani (componente sociale), e assistenziale verso gli anziani in primis (componente di welfare e ammortizzatori sociali).

Tutto questo può essere anche letto con la creazione di nuovi posti di lavoro, e di nuove professionalità. Credete sia il caso di lasciarci sfuggire, come nazione, anche questa occasione?