Non sono un fan di Pietro Grasso, presidente del Senato, ex magistrato della procura di Palermo, già capo della direzione nazionale antimafia, ora presidente della Repubblica pro tempore, tra i quirinabili nella successione a Giorgio Napolitano. Non lo sono perché di solito tifo solo per il Milan. Detto questo fa un certo effetto leggere l’intervista concessa da Marco Travaglio al Tempo, dove il giornalista del Fatto Quotidiano definisce l’attuale presidente del Senato come «più che un reggente, un autoreggente. Un uomo che nella sua carriera non ha mai combinato nulla di rimarchevole». Travaglio o fa finta di non ricordare oppure non ricorda del tutto la stagione della lotta alla Mafia degli anni ’80 e ’90. Perché Grasso, basta prendersi qualche libro di storia o anche Wikipedia per scoprirlo, fu il giudice a latere e l’estensore della sentenza del Maxiprocesso del 1985, quando collaborò con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si tratta di una sentenza storica, confermata dalla Corte di Cassazione dove per la prima volta veniva dimostrata l’esistenza della Cupola. Non solo Grasso è ricordato ancora a Palermo per aver messo alla sbarra tutto l’Udc siciliano nonché diversi esponenti di Forza Italia, persino l’ex presidente di Regione Totò Cuffaro. Ecco, insomma diciamo che qualcosa di rimarchevole ha fatto nella sua lunga stagione di magistrato.
Da Wikipedia: «Nel settembre del 1985, Francesco Romano, presidente del tribunale di Palermo lo designa giudice a latere nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra (10 febbraio 1986 – 10 dicembre 1987), con 475 imputati.
Grasso, nella sua autobiografia, ha ricordato così il colloquio con Romano e le sue successive riflessioni prima di prendere parte al maxiprocesso:
“[Francesco Romano] mi ricevette con grande cordialità e cominciò a tessere le mie lodi, dicendo che ero stimato come giovane magistrato brillante, equilibrato e grande lavoratore. Io lo interruppi scherzando: “signor Presidente, mi dica, dove sta la fregatura?” “Abbiamo pensato di affidare a lei l’incarico di giudice a latere del maxiprocesso contro la mafia”. (…) L’incarico era prestigioso e la proposta mi inorgogliva. Chiesi però ventiiquattr’ore di tempo per parlare con mia moglie. (…) Ciò che sarebbe seguito non era difficile da immaginare: minacce, pressioni, tentativi di delegittimazione, una vita blindata, la fine della privacy. (…) Dissi a Maria “decidiamo insieme. Ma sappi che, se dovessimo orientarci per un rifiuto, lascerò la magistratura (…) Lei non ebbe esitazioni: “fai quello che devi fare per il tuo lavoro. E quello che verrà, ce lo prenderemo. E così è stato, negli anni, come previsto.” [5]
Una volta accettato l’incarico, Grasso iniziò una stretta collaborazione con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino i quali gli fornirono un aiuto essenziale per studiare e comprendere le carte processuali.
“Falcone mi portò in una stanza blindata, aprì la porta e mi disse: “ecco, questo è il maxiprocesso”. C’era una stanza con quattro pareti fino al tetto con degli scaffali e 120 faldoni. Si trattava di circa quattrocentomila fogli processuali, tutti da studiare. (…) Provai uno sgomento notevole ma non volli darlo a vedere, non volli deludere Giovanni Falcone che mi osservava, voleva vedere la mia reazione. Gli dissi: “dove è il primo volume?” e lui si aprì in un grande sorriso.” [6]
“Mentre mi trovavo lì a studiare le carte passò Paolo Borsellino. Mi vide così in difficoltà a raccapezzarmi tra tutte quelle carte, tra tutti quegli episodi e mi fornì le sue famose rubriche, quelle dove con una calligrafia minuta aveva annotato tutti gli omicidi, tutti i delitti e tutte le corrispondenze delle pagine dove si trovavano le dichiarazioni e le accuse per quel tipo di reato. Fu un aiuto eccezionale perché mi fece guadagnare tanto tempo per studiare quelle carte. Mi sentii quasi coccolato come se avessi un fratello maggiore che mi aiutava”. [7]».