Era ora che il datagiornalismo s’interessasse anche al mondo dell’arte. Dalla maxi-inchiesta SwissLeaks sui conti segreti nella banca svizzera HSBC sono venuti fuori nomi legati all’arte. Pochi, due o tre. Ma come nel datagate di Snowden, la scelta di fare o no i nomi è lasciata ai giornalisti e ai giornali che li pubblicano, e noi ci accontentiamo.
Fra i nomi più clamorosi figurano Christian Boltanski il più rinomato artista francese contemporaneo, Helmut Newton il fotografo di moda morto nel 2004 e Alfred Taubman ex presidente di Sotheby’s. Per ora nessuna personalità dell’arte italiana, ma non c’illudiamo.
Sorprende più che altro che nessun giornale d’arte abbia partecipato all’inchiesta – un’inchiesta giornalistica internazionale – nonostante l’arte sia oggi un’industria che come tale genera movimenti importanti di denaro.
Boltanski rifiuta di commentare la notizia ma la scuola di Belle Arti di Parigi (dove per anni aveva una cattedra) ha intanto tenuto ad informarmi ieri via Twitter che Boltanski non vi insegna più. Cambia poco se Boltanski sia ora andato o no in pensione, in realtà è il conto in Svizzera a chiudere la sua carriera. Tecnicamente, se nasconde il suo denaro invece di investirlo nella propria ricerca, Boltanski non è più un artista.
Su Boltanski e gli altri non pesa nessuna accusa giuridica. Anzi Le Monde specifica che molti hanno già “regolarizzato” la loro situazione. Significa che lo Stato prima li scopre e fa pressione e poi li riscatta – dopo ingente versamento.
Se dunque l’evasione fiscale non compromette ormai che relativamente, ha però ancora il potere di azzerare lo statuto artistico. A Boltanski come a molti artisti contemporanei quindi, non resta che assumere di aver semplicemente cambiato vocazione diventando degliindustriali che pensano a produrre e a guadagnare.
Arricchirsi è un diritto anche per gli artisti a patto che non sia l’obiettivo finale. Il problema comincia se un artista crea per arricchirsi: cosa distingue un’opera d’arte da una semplice merce? Dal momento in cui Boltanski ha accumulato la sua fortuna in un deposito svizzero invece di reinvestirla nell’arte, la sua produzione artistica smette di essere di giurisdizione artistica.
E così, anche mettendo da parte la questione etica dello scandalo, resta sempre la questione culturale: se lo Stato tassa l’arte costringendo gli artisti a diventare degli imprenditori di se stessi, allora chi si occupa di cultura?
Evadere le tasse è un reato ma i governi devono permettere agli artisti di restare degli artisti, persone cioè che possono permettersi di dedicarsi alla ricerca in maniera disinteressata. Invece di convertirsi alla produzione e al guadagno.
La politica da tempo non fa distinzione tra ricerca e produzione, tassa gli artisti quanto gli industriali. Tra l’altro non c’è più molta differenza tra arte e industria, tutto il sistema dell’arte oggi si fonda sulle regole di produzione, non su principi culturali. Se cultura e industria poggiano su le stesse regole, l’arte non è più un valore aggiunto nella società.
Con la consacrazione di Jeff Koons e della sua arte industriale, è scomparsa definitivamente la nozione di opera-prototipo. Oggi regna l’opera-prodotto che permette di ottenere un rendimento infinito da una sola e stessa invenzione. Così gli artisti che acquisiscono valore sono o quelli morti o quelli che producono di più (vendendo quindi di più) senza l’obbligo d’innovare. E infatti l’arte, la ricerca artistica, è rimasta ferma ai tempi di Duchamp.
Gli evasori che vengono dal mondo dell’arte come Boltanski si squalificano doppiamente, come cittadini perché non pagano le tasse e come artisti perché dimostrano di non investire tutto nella ricerca. Almeno Damien Hirst, che certo è molto più ricco, finge di investire nella ricerca: presto aprirà una sua fondazione a Londra dove esporrà la sua collezione d’arte privata, come fanno i grandi imprenditori del lusso. Cercando bene o male di attenersi alle regole del mecenatismo oltre a quelle del mercato.
(di Raja El Fani)