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Oggi sono passati 33 anni dal giorno in cui morì John Belushi, un genio, un pazzo, un campione del mondo dell’irreverenza, un gran durone, uno che sapeva far sganasciare dal ridere, ma che in realtà è sempre stato inseguito da un demone, quello che poi l’ha ucciso. Era il demone dell’inquietudine, era il suo Pat Garrett, e purtroppo aveva una buona mira.
Di tutte le cose che ci ha lasciato in eredità, oggi ne voglio ricordare una, quella che — se nel mondo e nella storia ci fosse della giustizia — dovrebbe essere ricordata come la “mossa Belushi”, ovvero questa:
La scena è tratta dal quel capolavoro di Animal House, che è poi la prova provata che si può fare un college movie senza fare minchiate alla American Pie, e si svolge durante il toga party organizzato dalla fratellanza Delta Tau Chi.
Ah (sospirone), il toga party.
Bluto che scende le scale vestito da romano. Bluto che si ferma sulle scale ad ascoltare un tipo che pompa il proprio ego facendo il figo con le ragazze, suonando una canzone dolce e fissando una delle ragazze con uno sguardo languido. Bluto che sospira e che pensa a quanto non sopporta l’ego ipertrofico della gente. E poi, Bluto che agisce rapido, strappa la chitarra dalle mani del tipo e la distrugge contro il muro. Bluto che gli ridà in mano ciò che resta della sua bella chitarra e, con lo sguardo del discolo, chiede scusa.
In sintesi: la “mossa Belushi”, un gesto libertario di sana distruzione, un gesto contro un grande cancro della nostra società: l’ego ipertrofico della gente.