Ancora una cinquantina di giorni all’inizio dell’attesissima 56° Biennale di Venezia, la più politica dal 1974. Anno cruciale al quale si rifà solennemente il curatore nigeriano Enwezor tornato con il Presidente della Biennale Paolo Baratta da una tournée di conferenze finita quest’anno per la prima volta in Cina, a Shanghai. Il boom cinese nel mercato dell’arte, appena confermato con la fiera Art Basel di Hong Kong, ha spinto la Biennale di Venezia ad un importante riassetto ed è all’origine di un programma che fa già discutere.
A cominciare dai riferimenti storici: perché tornare agli anni ‘70? Nel 1973 c’è il golpe cileno di Pinochet punto di partenza della riflessione di Berlinguer, segretario del PCI che avvia il processo del Compromesso Storico che presto smusserà la strategia della tensione. Questo è il contesto storico della Biennale del 1974 ricordata da Enwezor, una Biennale eccezionale in cui cambia il regolamento e alla fine si rinuncerà anche a scegliere un vincitore mettendo tutti gli artisti sullo stesso piano.
Per Enwezor la Biennale del 1974 è pertanto un esempio di impegno civile, ma per l’arte è di fatto l’inizio di una parificazione controproducente derivata da una interpretazione populista della cultura marxista. Da allora la gara artistica alla Biennale di Venezia è diventata più che altro simbolica, gli obiettivi non sono più di erigere nuovi valori per l’arte o di ricavare l’eccellenza dal magma dell’arte globale.
Ed eccoci nel 2015, sotto il governo Renzi, la Biennale di Venezia reintegra il bisogno politico di riconciliazione invitando il mondo dell’arte a riflettere sul Capitale di Marx, il padre del comunismo. Il Capitale è uno dei tre “filtri” della Biennale annunciati da Enwezor oltre a Vitalità e Disordine, ma Marx resta senza dubbio il riferimento più esplicito e categorico del progetto.
Ragione per cui il programma di Enwezor è oggetto di stupore e di incomprensioni soprattutto in America dove, durante la conferenza stampa a New York la settimana scorsa, il critico d’arte di Artspace Walter Robinson si lascia andare su twitter a dire che Il Capitale di Marx è addirittura equiparabile al Mein Kampf, confondendolo forse con il Libretto Rosso di Mao. Ma se i clichè e i pregiudizi sul marxismo sono ancora diffusi in America e se è quindi giusto ridimensionarne la storia, la scelta di fare una Mostra Internazionale ripartendo da Marx non è però così sovversiva oggi come potrebbe sembrare.
Non vi stupite anzi se, fra gli artisti cinesi della selezione, non troverete quest’anno l’artista scomodo Ai Weiwei – considerato un dissidente dal governo cinese – bensì la giovane Cao Fei, inventrice di un Second Life dell’arte e star dell’Art Basel di Hong Kong. Ai Weiwei sarà presente in veste di curatore nel padiglione Irak con artisti impegnati sulla questione dell’IS e del terrorismo islamico.
Di fatto, la Cina non è più un nemico e per facilitare gli scambi bisogna conciliare la cultura cinese (ufficialmente comunista) con la cultura globale del mercato. Urge come negli anni ‘70 una seconda revisione del comunismo ma alla base. La scelta di Marx alla Biennale è figlia di questa nuova linea politica. La Biennale di Venezia è inoltre un evento pubblico e di ampio raggio a Sud dell’Europa, lontano dai vertici economici, dove riesumare Marx non dà troppo fastidio.
Il Capitale di Marx, monumento in tre volumi del pensiero europeo, sarà letto in diretta durante tutta la Biennale da attori professionisti come un oratorio. Come se non bastasse ogni week-end ci saranno seminari attinenti e tanti artisti simpatizzanti marxisti. Siete pronti per una full immersion?
Surreale no? Anche perché eccezionalmente sarà l’Italia a farvi da apripista.
Le ragioni di tanto onore? L’Italia, a cui è rimasto ben poco da giocarsi, è forse l’unico paese che accetta di prendere il rischio di rappresentare la transizione post-comunista dell’Europa. In cambio porterà alla Biennale cinque artisti italiani più la testata web di Stefano Boeri “The Tomorrow” che organizzerà i seminari.
L’Italia, è vero, ha avuto un ruolo chiave nell’assorbimento del comunismo non solo in politica ma anche attraverso i suoi artisti, tanto che addirittura perfino Pasolini, e proprio nell’anno del quarantesimo anniversario del suo (da poco archiviato) omicidio, entra a far parte della cultura del compromesso: Pasolini, in veste di fantasma marxista dell’Occidente, sarà il protagonista della 56° Biennale – chi l’avrebbe mai detto – ma solo attraverso un lavoro congiunto con l’amico Fabio Mauri appena consacrato a New York alla galleria svizzera Hauser & Wirth.
Nel Padiglione Centrale, quello dove gli artisti sono internazionali, ci sarà inoltre la musica del grande compositore veneziano Luigi Nono, ci saranno le opere di Pino Pascali – che, si mormora, è in mano al colosso americano Gagosian oltre al suo avente diritto italiano Sargentini – e due italiane (Monica Bonvicini e Rosa Barba) residenti in Germania dove Enwezor dirige la Haus der Kunst di Monaco. Nessuna connessione tra gli artisti, in perfetto stile post-moderno e coerente con il disordine, uno dei tre filtri di Enwezor.
Alla Mostra troveremo tutti i temi caldi del pianeta, dalla Palestina alla Siria all’Ucraina, nessuno escluso. Una Mostra che promette di essere un vero modello di democrazia insomma, ma che non si sforza o evita di ricavare dal caos, da quel magma certo pieno di energie che è l’arte oggi, una sola teoria dell’arte. Forse non è ancora arrivato il momento.
Intanto, il Presidente della Biennale Paolo Baratta ha più volte dichiarato che la Biennale di Venezia non è una Fiera d’arte e che pertanto non è succube della “dittatura del mercato” (cit.). Allora perché disturbare Marx quest’anno se non per rivoluzionare l’arte?
(di Raja El Fani)