GloβExpo comincia alla Triennale oggi con la mostra Arts and Foods

Apre oggi al pubblico il primo “padiglione” di Expo 2015, quello riservato all’arte e l’unico al centro di Milano per questioni di assicurazione. Lo spazio della Triennale, il museo all’onore per ...

Apre oggi al pubblico il primo “padiglione” di Expo 2015, quello riservato all’arte e l’unico al centro di Milano per questioni di assicurazione. Lo spazio della Triennale, il museo all’onore per l’evento internazionale, è stato ripensato per accogliere “300 foto, 800 documenti grafici, 1500 pezzi di design, 500 opere d’arte di 100 artisti”, annuncia il curatore Germano Celant alla conferenza stampa ieri. Una mostra su due piani con tre percorsi che ripercorre cronologicamente la storia del nostro rapporto con il cibo dal 1851, anno della prima Expo a Londra.

La visita è di una durata media di un’ora e mezza, come avverte Celant che invita tutti, piccoli e grandi, a fare “un salto nella memoria, in questa caverna di elementi, una jam session delle arti”, ringraziando il suo team di 150 persone per l’impegno “ciclopico”: “ammassare tutto quel materiale è stato un’impresa”, aggiunge.

Nel primo percorso attraversiamo cucine, sale da pranzo e bar d’epoca dove i quadri di Monet, Gauguin, Braque, Balla, Boccioni, Morandi, De Chirico fanno da contorno. La prima impressione è che la pittura rivoluzionaria e inestimabile dell’Impressionismo, del Cubismo, del Futurismo e del Surrealismo si ritrova ad arredare le cucine delle nostre nonne e trisnonne. D’altronde l’idea di Celant, come lui stesso ha dichiarato ieri, era di creare “una dimensione storica parallela”, e parallela è rimasta, infatti.

Ed è già in questa prima parte, con Duchamp, che c’imbattiamo nel primo grande errore scientifico della mostra. Ancora una volta i Ready-Made di Duchamp vengono presentati in bacheca (come sono allestiti quelli della collezione Schwarz alla Gnam di Roma) congelati e snaturati senza la possibilità di afferrarne il senso. Tutti oggi dovrebbero sapere che, per togliergli ogni funzionalità, lo Scolabottiglie di Duchamp era appeso al contrario. Alla Triennale, lo scolabottiglie è rimesso nel verso giusto, appoggiato come un semplice scolabottiglie. E’ grave.

Con Celant tutti gli oggetti della mostra, che siano d’arte o meno, tornano alla loro funzionalità: è il principio guida del design, non dell’arte. Alla Triennale siamo nel museo del design, come dimenticarlo in questa successione di teche dove i frullatori delle nostre nonne sono ordinati come reperti archeologici?

Ma poi arriva il secondo percorso, il dopoguerra, e cambia tutto.

Qui domina la Pop Art, e capitomboliamo nella nostra ludica società del consumo con gigantografie di prodotti alimentari industriali e un ammaliante linguaggio pubblicitario (Warhol lavorava in un’agenzia pubblicitaria). È qui che Celant ieri si è fatto immortalare dalle telecamere, fra i riconoscibilissimi dolci di plastica di Oldenburg. Che Celant avrebbe prediletto la Pop Art era scontato, lui che ha concepito l’Arte Povera, corrente dalla stessa matrice estetica. E per toglierci ogni dubbio sulle preferenze di Celant, c’è l’agghiacciante chioschetto McDonald’s di Tom Sachs (Neo-Pop), unica opera di Arts & Foods disposta nella navata centrale della Triennale all’ingresso.

Sono invadenti – si direbbe quasi per natura – le opere degli americani Warhol, Oldenburg, Tom Wesselman, Robert Indiana (molto meno Lichtenstein) in confronto ai loro colleghi europei Arman, Spoerri, Rotella, Schifano. Ma come se non bastasse, dato che sono già grandi e vistose per natura, le opere americane sono anche di più alla Triennale e per volontà di Celant. Da chiederci se non c’è un favoreggiamento. A questa perplessità – espressa dal critico Bonito Oliva presente ieri alla preview per la stampa – dovrebbe rispondere Celant, poiché niente storicamente giustifica questo sbilanciamento. Ma la questione è spinosa ed è ancora in corso di valutazione scientifica come testimonia la mostra “International Pop” programmata l’11 Aprile al Walker Art Center di Minneapolis e che metterà finalmente insieme e a confronto tutti gli equivalenti e i precedenti della Pop Art nel mondo, non solo americana.

Il terzo e ultimo percorso è quello della scena contemporanea con grandi, scenografiche installazioni e dove i Poveristi – come vengono chiamati gli artisti riuniti alla fine degli anni ‘60 da Celant – si distinguono per i loro materiali naturali: pane per Penone, Merz e Fischer, e caffè macinato per Kounellis che invadono la mostra di rassicurante e sensoriale fragranza. Sulla stessa scia naturalistica e per cui il cibo in Occidente non serve più solo a nutrirsi, c’è il brasiliano Vik Muniz che dipinge il Cenacolo di Leonardo con il caffè (di cui il Brasile è primo produttore mondiale), e c’è anche un discendente di Manzoni ma meno concettuale, il belga Wim Delvoye, con una versione portatile delle sue Cloaca: una lavatrice trasformata in apparato digestivo elettrico e che in sé riassume tutta la mostra Arts & Foods in cui il cibo siamo noi, il pubblico.

Discreta la presenza di Germania e Inghilterra con Beuys e Sarah Lucas fra le sei artiste donne – finalmente, ma che non risolvono la sottomissione moderna del corpo femminile – fra cui Marina Abramovic, Cindy Sherman, Sophie Calle, Mona Hatoum e Vanessa Beecroft di cui foto e video mettono in scena un’alimentazione nevrotica fra esibizionismo e performance.

Il percorso finisce con i beniamini del mercato dell’arte internazionale Jeff Koons e Cattelan, con la loro Pop di seconda generazione diventata ridondante, ideologica e figurativa, come Paul McCarthy che prevale, fra le sculture disposte fuori nei giardini della Triennale, con un’enorme bottiglia di ketchup gonfiabile davanti alla Fontana Misteriosa di De Chirico. Nella nostra società dello spettacolo dunque, l’arte cambia scala, prende dimensioni monumentali per farsi notare e sopraffarci ma anche perché così costa di più e si fanno più profitti come ha capito Damien Hirst che però non è nella selezione di Celant.

Difficile quindi distinguere tra scenografia e arte nella mostra di Celant, tra il ristorante a forma di pesce dell’archistar Frank Gehry e le installazioni d’artisti. È stata dura perciò rilevare le opere d’arte in questa mostra-inventario dove la storia dell’arte è solo un racconto, anzi una fiaba, una legenda ormai completamente scollegata dal suo valore storico. Al pubblico di Arts & Foods viene omesso il valore storico dell’arte, usciti dalla Triennale non sappiamo perché l’arte rivoluziona il mondo. Questo è il risultato di un’operazione qual è Arts & Foods ma i critici taciono, ignari o complici.

Perché nel ritratto del cuoco di Monet nel primo percorso, Celant torna a farci guardare al soggetto del quadro che Monet stesso aveva dichiarato come secondario, pretestuale, e che conta quanto una ninfea o una cattedrale nella rivoluzione impressionistica? Le stesse speculazioni sviano il pubblico dal senso storico della Gioconda di Leonardo: la figura di Monnalisa in primo piano c’intrattiene mentre nello sfondo un paesaggio rivoluzionariamente prospettico inganna l’occhio.

Conclusione: Arts & Foods è un bluff e non convince, non soltanto a livello storico ma anche commerciale. Sorprende in particolar modo l’assenza di rappresentanti della scena artistica cinese contemporanea. Per farci un’idea sulla provenienza delle opere, basta sfogliare l’indice delle courtesy nel catalogo, per capire che Celant non ha relazioni con la Cina. Eppure oggi non si può più ignorare che la Cina è entrata a competere con gli Stati Uniti nel mercato dell’arte. Per coerenza e per meritarsi il certificato di mostra davvero internazionale, Celant avrebbe dovuto reperire e includere nella mostra anche qualche artista cinese.

L’Italia di Expo2015 dimostra di non interessarsi ai cambiamenti epocali del sistema mondiale dell’arte. Così, per quanto colossale e multiculturale, la mostra Arts & Foods non rientra negli standard delle mostre globali come la Biennale di Venezia – che comincia tra un mese esatto. Eppure il “padiglione” d’arte di Expo è costato quanto una mostra del calibro di una biennale: sette milioni di euro per venerare la Pop Art e tagliarsi fuori dalla competizione artistica mondiale. Per fortuna, almeno dal punto di vista commerciale, l’Italia ha la Biennale di Venezia.

(Scritto da Raja El Fani)

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