I giornalisti in Italia sono liberi? La riposta è “Dipende”

Sulle pagine del blog Minima&Moralia oggi è uscito un pezzo di Claudia Durastanti, giornalista e scrittrice, che anche se non fosse un'amica definirei come una delle migliori penne (o forse ormai ...

Sulle pagine del blog Minima&Moralia oggi è uscito un pezzo di Claudia Durastanti, giornalista e scrittrice, che anche se non fosse un’amica definirei come una delle migliori penne (o forse ormai si dice tastiere) che ci siano in questo paese. È un pezzo che si intitola Ho perso un lavoro per un tweet, e che so essere stato faticoso da scrivere, perché è sempre faticoso dover constatare il proprio scacco, la propria impotenza di fronte a un mondo — in questo caso quello giornalistico — in cui, in Italia, non c’è libertà.

Sì, ho scritto non c’è libertà. E lo penso sul serio anche se non vuol dire — ovviamente — che viviamo nella Repubblica Popolare Cinese, anche se non vuol dire che i giornali sono sottoposti a censura, che gli articoli sono vagliati da un comitato politico, e nemmeno che non si può fare questo lavoro con onestà.

In Italia sembra piuttosto esserci una libertà di espressione a doppia velocità: da una parte coloro che possono scrivere quel che vogliono, anche a costo di scrivere cazzate enormi, che non avrebbero coraggio di dire in un bar o nemmeno ai nipotini. E penso a un giornalista come Aldo Grasso, con una carriera dorata, che si permette di prendere una bufala, attaccare una generazione e non chiedere nemmeno scusa, o anche a un direttore — quello di cui parla Claudia nel suo articolo, e che non nomino soltanto perché non nominarlo è stata una scelta di Claudia, e la rispetto troppo per poter decidere altrimenti — che con una leggerezza che fa insieme ridere e piangere, difende il liberalismo della propria testata negandolo.

Dall’altra parte ci sono giornalisti come Claudia Durastanti, che la carriera dorata se la meriterebbe eccome — e che varrebbe la pena di pregare qualche divinità perché prima o poi gliela concedesse anche quella carriera — ma che oggi è costretta a farsi una domanda come questa: «sapendo a cosa sarei andata incontro avrei detto lo stesso la mia sulla decisione del PEN? La risposta onesta è no».

La colpa di Claudia Durastanti non è stata quella di aver difeso la libertà di espressione di uno scrittore americano che, in un dibattito sulla libertà di espressione, esprimeva la propria opinione sulla scelta di premiare Charlie Hebdo. La colpa di Claudia Durastanti è essere una giovane giornalista in Italia. È essere sola, non avere tutele di alcun tipo, essere alla mercé delle scelte di un direttore che ha un concetto di liberalismo tutto suo.

Oggi fortunatamente Claudia non ha perso il lavoro, ne ha perso solo uno. E chi la legge sa bene che il mondo non è ancora così tanto ingiusto e sbagliato da non permetterle di trovare altre collaborazioni. Questa certezza è il motivo che mi fa essere sicuro di non essere neppure io, lettore di quella rivista, ad aver perso qualcosa, perché Claudia continuerò a leggerla. Altrove.

Chi ha perso è quel direttore, è quella rivista, perché oggi si sono impoveriti entrambi. E non parlo di una povertà che deriva solo dalla defezione di Claudia Durastanti. La povertà di cui parlo non si misura solo sulle copie in meno che venderà (almeno una, se al direttore interessa, l’ha persa con me). Quella di cui parlo è molto più difficile da colmare, perché è una povertà morale, è dentro, in quel posto che si vede solo allo specchio e con cui prima o poi tutti dobbiamo parlare. E non si colma nemmeno con una cariolata di euro.

#jusquicitoutvabien

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