Non ho un orologio da polso da quando sono venuto via dall’Italia la prima volta, nel 1995. E ricordo forse di avere avuto, negli anni prima, uno swatch per alcuni anni, mentre nel cassetto e poi ora con me, in una delle mie scatole di ricordi e note sparse, si nascondono alcuni orologi, tutti regali di persone care che, negli anni, hanno provato a reintegrarmi in questa umanita’ tachimetro-munita. Il fatto e’ che mi sono reso conto che, abitando in una citta’ abbastanza popolosa, c’e’ sempre una torre, un orologio da muro, una maniera per sapere che ore sono. A volte bastava chiedere, al primo passante. Non sono insofferente agli orologi da polso, ma, ad un certo punto della mia vita, ho provato a vivere con un simbolo in meno addosso. Amo le cravatte, invece, perche’ sono una specie di sciarpina leggera, un piccolo statement di intenti, nel linguaggio che usano, nei disegni, le papere stilizzate, le regimental o quelle con i Simpson. I miei orologi accumulati negli anni raccontano anch’essi una storia, di un oggetto associato con il dono del tempo, un gesto di iniziazione alla vita, ed infatti vengono regalati nei momenti di grande passaggio. Le lauree, i matrimoni, le comunioni. L’orologio da polso dovrebbe riassumere non solo la consapevolezza del tempo che passa ma che tutto accade, tutto puo’ essere registrato, allineato nel continuum, grazie a strumenti di eccelsa precisione scientifica. L’orologio e’ da sempre il simbolo dell’aspirazione, della scalata sociale, dell’ambizione verso qualcosa di migliore. O e’, spesso, una memoria, come nel caso del protagonista di Pulp Fiction, a cui viene reso da un reduce il tachimetro che il padre militare in Vietnam aveva nascosto per evitare che fosse rubato. Ed anche nel mio caso, ho un orologio della Marina Militare, dono di mio nonno, veterano della II guerra mondiale, ed un orologio russo che mi fu lasciato da un carissimo amico prima che partisse per gli Stati Uniti. Ricordi e memorie, aspirazione sociale. Tempo. Ma, in un momento imprecisato del 1995, ho scoperto che tutto il mondo, tutto quello che abbiamo attorno, viaggia e scandisce il ritmo in una maniera che rende impossibile, nell’Occidente del terzo millennio, non rendersi conto dei minuti, delle ore, dei giorni che passano. Poi, sono arrivati i cellulari, gli smartphones, i tablets ed il tempo, il suo scandire sono diventati un’ossessione fatta di blips, reminders, pop-up che ti ricordano che dopo 15 minuti hai un incontro, un aereo. Si vive nel tempo, in questo tunnel dai lati stretti, ma ancora non riesco a conciliarmi con l’idea di avere un ciondolo di metallo ed ingranaggi al polso. Durante le rivolte di piazza a Milano, nel Maggio di quest’anno, ho letto con stupore e rammarico emotivo, dello scalpore destato da una foto di una ragazza del black bloc, intenta a infrangere una vetrina, armata di bastone e orologio di marca al polso. All’improvviso, siamo tutti diventati Pasoliniani, teorici di una impossibile riconciliazione fra dimostrazioni di piazza, coscienza, distorta, forse, ma socialmente attenta e gadgets e orologeria di lusso. Champagne Molotov, figli degli operai, i film di Scola, la dottrina per la quale un figlio del popolo deve vestirsi come un popolano, appunto. I principi gemelli, la maschera di ferro. L’immaginario della societa’ Italiana in decadenza, dove niente puo’ essere fuori dalla matrice, dalla rappresentazione classica che abbiamo travisato e trasformato dagli anni Sessanta in poi. La ragazza non era colpevole per aver infranto una vetrina di una banca, ma per aver osato indossare un segno, un simbolo di altre sfere sociali, di altri circoli. O, peggio ancora, e’ una di noi/loro, e’ una che gioca alla guerriglia, ma la sera torna a casa nei quartieri ghetto-bene di qualche citta’ Italiana.
Qualcuno ha detto ha che la cultura di un paese si riconosce dai simboli che sceglie, dall’iconografia del successo che associa a se stessa. Educazione, risultati accademici, livelli di competenza o mera apparenza, l’immagine, l’involucro. Contenuto od involucro. Memoria del passato o stasi/immobilismo del tempo permesso al cambiamento, per permettere la continua ripetizione del passato, l’estensione dei diritti post-feudali di caste e di famiglie varie, che siano di politici, di attori, di industriali, banchieri. E l’orologio aziendale, quello del regalo importante che rende questa schiavitu’ subdola con l’aspetto del se’, che diventa norma non scritta della grande omologazione della decadenza. La ragazza con l’orologio di marca ed un paese attorno che si scandalizza per evitare di guardare dentro agli occhi quella calca di contraddizioni che ho visto nelle giornate dell’inaugurazione dell’Expo.
Al lato estremo dello spettro dell’orologio italico, una foto, un’immagine devastante ma piena di speranze,di una organizzazione che raccoglie soldi per le vittime del Nepal: un uomo con un capello di lana tirato fuori dalle macerie di casa sua, o del luogo di lavoro. E’ tutto coperto di polvere bianca ed ha gli occhi chiusi, come un bambino appena nato. Ad un attimo dalle lacrime di felicita’ per essere ancora vivo, nel paese messo in ginocchio, stritolato dal gioco parallelo ed ignoto delle placche continentali. E la cosa che mi ha stupito della foto di quest’uomo e’ che ha un orologio da polso, intatto, anche se coperto della stessa fuliggine di calcestruzzo e di gesso che copre tutta la persona. Un orologio occidentale, che sembra anche di pregio, di marca. Un regalo, un acquisto con i primi soldi dello stipendio, in un paese fra i tanti del mondo dove sta nascendo la nuova classe media globale. L’uomo del Nepal e’ il contrario del senso di distruzione e di arresa che la foto della ragazza ed I commenti successivi trasmettevano. Un uomo vitruviano, con un orologio che dice e racconta di paesi che crescono, che educano i figli, che usano i risparmi per pagarsi educazione, per nutrire l’aspirazione. Senza mode da seguire, senza altra aspettativa di spostare il tempo avanti, senza paura del futuro, di altri terremoti disastrosi. Perche’ e’ tutto sempre tempo regalato.
Ci sono regalate ansieta’ ed attesa. Il tempo del condannato a morte e del futuro genitore. La memoria di altri tempi, o la frenesia di girare un’altra pagina, un’altra ancora, di questa piccola storia personale di ognuno di noi che diventa epopea, epica, biologia, architettura, archeologia. Tempo. E, forse, quegli orologi che non porto, dovrei mandarli in Nepal.
Soundtrack
Post-CSI – Vorremmo esserci
https://www.youtube.com/watch?v=WtB31E7gNK4
And so I watch you from afar – A beacon, a compass, an anchor