MarginiLa Buona TINA

Difficile scrivere quando si è coinvolti emotivamente, lo insegnava Roland Barthes sulle questioni amorose. Ci vorrebbe quella dose di cinismo & parresia (Diogene di Sinope) lambente il dominio de...

Difficile scrivere quando si è coinvolti emotivamente, lo insegnava Roland Barthes sulle questioni amorose. Ci vorrebbe quella dose di cinismo & parresia (Diogene di Sinope) lambente il dominio della follia o dell’infanzia, evitando quindi di cedere a paroloni come biopolitica, ideologia neoliberale, società del controllo etc. (Ci riuscitò solo in parte, temo)

Aspettando qualche riflessione di qualche intellettuale sufficientemente illuminato per tentare un’analisi di status, potrei tentare di approcciare la questione dal punto di vista micro: cosa cambierà nel quotidiano di un insegnante all’interno della sua pratica scolastica, del suo rapporto con l’istituzione e con gli effetti di senso che questa riforma produrrà giorno per giorno. Ma anche questo richiederebbe tempo, perché la riforma deve ancora produrre effetti e si potrebbe obiettare, come una mia amica dirigente: «vedremo, per ora sono state solo parole». L’anticipazione degli effetti è un gioco astratto che d’altra parte avrebbe qualche conferma concreta solo con un’analisi sociologica e sistemica.

No, ora bisogna solo confessare un senso di profonda frustrazione, condivisa da una quantità quasi totale di altre persone – soprattutto insegnanti ma non solo – che di fronte alla furia autoreferenziale con la quale il PD ha fatto passare #laBuonascuola non hanno altra risposta che lo sdegno di un sentimento di rabbia e impotenza.

Gli insegnanti non sono per lo più abituati al distacco dell’analisi politica, perché la loro attitudine è un’altra. I loro referenti non sono le élite, ma la società civile in fieri, i “ragazzi”. E attraverso di loro, certo le famiglie e la società, ma in senso pre-politico.

È per questo che quando si tratta di affrontare gli effetti di un cambiamento rivoluzionario della loro professione, non sanno far altro che protestare, spesso in modo scomposto, rivolgendosi ai politici, agli uni per contestarli, agli altri per cercare di coinvolgerli delle loro (s)ragioni. E ecco che intasano le email e gli account di twitter di politici e giornalisti, scendono scompostamente (oh oh!) in piazza, urlano, e in moltissimi altri casi restano in silenzio sempre più chiusi nella propria frustrazione, assorbendo la disistima ambientale di chi li giudica cialtroni, fannulloni, privilegiati ancorati al passato quando «la società è cambiata». Ho letto anche l’ultima boutade: insegnanti che dicono OKI, come i greci che  meriterebbero di essere «pagati in dracme».

In gran parte #laBuonascuola non fa che recepire quello che nella società attuale sta già avvenendo; il tramonto della funzione che la scuola aveva avuto nel dopoguerra. E questo non riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Europa (l’Europa!).

La scuola svolgeva un ruolo fondamentale nella società del dopoguerra. «Funzione costituzionale» la chiamava Calamandrei –  mediazione tra i valori che una società voleva porsi come telos, e il quotidiano impasto di compromissioni e arrangiamenti in cui si trovavano a vivere uomini provati dagli esiti nefasti della barbarie bellica. Era la Costituzione stessa, e poi le leggi successive, che avevano affidato alla scuola il compito di «in-segnare» la costruzione di una società alternativa. Per questo era essenziale, per gli insegnanti, la libertà di insegnamento, ovvero il non essere contaminati e costretti da alcuna ideologia,  implicita e/o esplicita.  Chiusi per ore in quei luoghi eterotopici che erano le scuole, dove veniva sospeso il ritmo anapestico della quotidianità, gli insegnanti godevano, insieme agli studenti,  del privilegio di una vita comunitaria riconoscibile. Certo attraversata a tratti dai riflessi della società circostante, ma sempre sotto una cappa sperimentale. Questo era ovviamente il limite, ma, a guardare oggi le cose, era anche l’estrema risorsa della scuola. Tra la società esposta al rischio di un’adeguazione alla nuda e brutale «realtà dei fatti»  e le nuove generazioni vi era la mediazione della classe docente che opponeva il sogno (se volete) «che non si deve cedere alla barbarie», ovvero i «valori della Resistenza», o, se volete ancora, «i valori dell’Europa». Magari anche questa rappresentazione è idealizzata, ma in gran parte permeava l’autocoscienza della classe insegnante.  Era questo primariamente il compito civico della scuola, ben anteriore a quello di formazione delle classi dirigenti (alla quale essa era stata indirizzata invece tra ottocento e primo novecento e poi anche con la riforma Gentile) che da sola non era servita a porre la scuola in dialettica contro i valori di una società che avrebbe portato alla dittatura.

Ma questa funzione di mediazione insita nel patto costituzionale non dipendeva affatto dalla personalità del singolo insegnante, dal suo “merito”. Dipendeva dalla forma sistemica che alla scuola era stata data. Subsistema nel sistema sociale.

Per questo non si capisce nulla della protesta attuale degli insegnanti se si ritiene che essa sia fatta solamente per ragioni personali, per conservare il posto di lavoro, (o i presunti privilegi – !) ad esso connessi. È invece probabile che dalla loro postazione gli insegnanti abbiamo solo adesso compreso, sulla loro carne viva,  che ormai è collassata quella funzione. Oggi la realtà economico-sociale fa valere nella scuola, per il tramite della politica, il suo imperativo economicistico, cancellando la scuola come luogo eterotopico e  assimilandola completamente alla sua unità minima esemplare, l’impresa: l’acronimo inglese TINA: there is no alternative è la sintesi dell’ideologia (sì, ideologia) dominante.

Distrutto questo assetto come spazio di mediazione, si è imposto fatalmente di ridisegnare la funzione della scuola. Se prima (nell’era Berlinguer) era stato introdotto il modello amministrativo dell’azienda, ora si è trattato di sostanzializzare quel modello. Da funzione costituzionale, (nella foma della comunità di vita e di apprendimento), la scuola è diventata dapprima azienda formale, poi impresa sostanziale. Per questo #laBuonascuola è una riforma perfetta.

L’insegnante dovrà essere formatore di «competenze», volte a implementare il «capitale umano» in soggetti che si troveranno domani gettati in un mercato sempre più competitivo. Formatore di qualità sottoposto al controllo di qualità (=valutazione) per essere adatto allo scopo. A capo dell’impresa vi sarà un manager a sua volta valutato. E così via. Esemplarità lodevole. Come sempre la scuola si pone come modello di una società, ma questa volta non c’è più nessuna dialettica tra di esse. Vi affidiamo il semilavorato,  ne uscirà il prodotto. E guai a sgarrare. 

A tutto questo non c’è alternativa. There is no alterative.

«Voi insegnanti: perché protestare, adeguatevi. Pagate il debito. In fondo cosa volevate che non  toccasse a voi quello che toccava agli altri lavoratori? Abbiate responsabilità. Abbiate un pazienza. E voi cittadini che magari adesso siete dubbiosi. State tranquilli. Ci vorrà tempo, fate lavorare questa riforma e allora non avrete più neppure tutto questo inutile reflusso acido marginale, questi hastag e queste molto più spiacevoli interruzioni del traffico».

Si tratterà di vedere, seriamente, se questo progetto resisterà, o se, molto più realisticamente, sarà destinato a contaminarsi per effetto dell’inerzia e della microresistenza delle buone pratiche che ancora permangono e che non si cancellano certo con un voto in parlamento. L’effetto di microresistenza potrebbe essere espresso nella frase laconica del Bartleby di Melville: I would prefer not to. 

Alessandro Paris

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